Amare il Mare, retrospettiva di Ugo Marano al Castello Aragonese di Ischia

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L’Associazione “Amici di Gabriele Mattera”, con il patrocinio della Regione Campania, in collaborazione con la Galleria Paola Verrengia di Salerno e grazie a Stefania Marano, è lieta di annunciare AMARE IL MARE, una importante retrospettiva di Ugo Marano, a cura di Antonello Tolve, che si terrà in vari spazi del Castello Aragonese di Ischia, dal 13 luglio al 30 settembre 2024.

Dell’ampio e impareggiabile percorso radical-concettuale-utopico di Marano, questa mostra propone un grande ventaglio di opere in cui si coglie un percorso polifonico («un magma visionario e calligrafico senza fine», «una poetica fuori dal tempo» a detta di Alessandro Mendini) scandito da tappe brillanti che mettono sempre sotto scacco la monotonia del quotidiano per dar luogo a oggetti e progetti provocatori, a teorie utopiche, a installazioni altamente rituali e a rotture rivoluzionarie dall’indubbia originalità (Dorfles).

Accanto a una serie di maestosi vasi in cui si evince tutta la forza di un pensiero che coniuga la tradizione artigianale della Costiera Amalfitana all’innovazione determinata da una riflessione senza fissa dimora sugli strumenti dell’arte, AMARE IL MARE presenta anche delle sculture in lamiera di ferro realizzate dall’artista a partire dal 1967, anno in cui sente appunto l’esigenza di elaborare un discorso sugli Arrugginibili: opere numerate in progressione da 671 mediante le quali Marano innesca un naturale principio di invecchiamento del metallo e trasforma il tempo – come pure il mare, l’acqua salata – in materia dell’arte.

Una sfilza di sedioline in terracotta invita, poi, a riflettere sulla sedia in quanto cifra semiotica e in quanto emblema d’una relazione tra estetica e design. Si tratta delle meravigliose Signore sedie dalla venatura antropomorfa realizzate a partire dal biennio 1979-1980 e ognuna indicata dall’artista con un nome suo proprio che ne evidenzia la singolarità: c’è la Sedia dei sogni interrotti, quella del geometra amico di Bonalumi, quella Con/creta, quella dell’alpinista in pensione, quella X Filiberto Menna e quella di Fontana, quella di Deleuze e quella di Argan, quella in architettura o ancora quelle dedicate ai giorni dell’anno, come Sedia 24 novembre, Sedia 16 dicembre o Sedia 18 dicembre.

AMARE IL MARE

di Antonello Tolve

 

 

L’arte è gesto fondante, espressione rivoluzionaria del presente

Ugo Marano

 

In tutto il lavoro di Ugo Marano (Capriglia di Pellezzano, 9 febbraio 1943 | Cetara, 15 ottobre 2011) è chiara l’idea di reagire alle inutilità del quotidiano e di elaborare percorsi – discorsi mitici, poetici, ironici – in cui l’oggetto domestico non solo è spostato dall’ordinarietà e dalla consuetudine verso una nuova sintassi per diventare lingua altra dalla lingua, ma è anche caricato di significazione poetica dove vige sempre uno stato d’emergenza che rompe la serialità per tornare al potere dell’unicità. Legato a un pensiero che trasforma l’argomento d’uso comune in un dispositivo teso a sabotare ogni forma standardizzata dal mondo delle merci, Marano innesca infatti un cortocircuito capace di coniugare nuovamente le due storie dell’oggetto e delle idee umane per tornare al sapore dell’archetipo e riconnettere dunque «il nostro design a radici più antiche, che a loro volta continuano ad alimentarne in profondità la linfa, come l’animismo latino, le culture misteriche dell’antichità italica, lo spirito paleocristiano e i valori bizantini, il Rinascimento e il Barocco»[1].

Pur mantenendo in molti casi attiva la funzionalità dell’elemento preso in esame, questo è dunque sempre spinto dall’artista ai limiti della sua stessa cosalità, portato su un piano riflessivo la cui necessità di assestamento si appropria dell’architettura per tradurre in materia l’immaginario collettivo.

Marano ascolta l’aspetto dell’oggetto e lo porta a un livello superiore di pensiero dove l’essenzialità morfemica coincide con una essenzialità (esistenzialità) concettuale ricca di allusioni al mondo della vita e a utopie che si concretizzano, che si rincorrono a vicenda e che trovano via via una loro corrispondenza visiva e plastica, una loro incarnazione tattile e tangibile nella cosa realizzata.

Messa sensibilmente  in discussione dal materiale povero impiegato come forma che asseconda la forma, la cosa – «è necessario un rapporto di amicizia con le cose» puntualizza l’artista in un testo del 1988, Stare seduti o correre nei prati? – è per Marano entità in relazione all’essere umano e all’ambiente circostante: e che sia tavolo o sedia o utensile del consueto vivere, ha sempre un rapporto di partecipazione con il corpo, quello dell’artista e quello sociale, in un incontro reciproco tra soggetto privato e spazio sociale.

Metafora tra il surreale e il costruttivo, l’opera di Marano rappresenta – sulla linea di Paolo Deganello, di Alessandro Mendini o di Ugo La Pietra, volendo citare soltanto alcuni dei nomi più radical, ironici e squisitamente beffardi – potenti favole raccontate mediante stratagemmi linguistici che intersecano stupore e lucidità (smarrimento e scoperta), con lo scopo di revisionare le convinzioni razionaliste e funzionaliste che caratterizzano l’arte (come pure il design) di primo Novecento, per rientrare a pieno titolo nel dibattito delle contestazioni sociali, dove si rafforza una critica al modello dei consumi a cui l’artista risponde con contenuti radicali, rituali, astrali, fluidi, aperti, capaci di coniugare opere d’arte e utensili d’uso consueto, smarcati dalla produzione industriale e allontanati dalle eventuali trappole della banalità. A differenza di quello che fanno architetti, designer e artisti quali Archizoom, Gruppo 9999, Ufo e Superstudio a Firenze, Gruppo Sturm a Torino, Gaetano Pesce, Ettore Sottsass, i già citati Mendini e La Pietra a Milano, che assumono e assorbono nel loro operato le innovazioni tecnologiche o i nuovi materiali plasmabili e superleggeri, gonfiabili e curvabili (la gommapiuma, il laminato plastico, il poliuretano, il plexiglas), Marano recupera – e in questo è molto vicino a Riccardo Dalisi che opera a Napoli, e con cui pure collabora – i terreni fertili della tradizione (materiali quali il ferro, il legno, il mosaico e in particolare la ceramica della costiera amalfitana o anche il cromatismo pompeiano) intesi come reinvenzione plastica, come concreta e tangibile tradinnovation di oggetti, luoghi e spazi, come metodica valorizzazione dell’artigianato, nella certezza che piccoli spostamenti e spaesamenti e spiazzamenti possano modificare la realtà, produrre la differenza e rendere la cosa di turno – la forma primordiale del piatto, della sedia, della mattonella, del tavolo o del vaso – un congegno riflessivo, una architettura minima su cui esercitare pressioni creative, trasformazioni a lieto fine[2].

Carichi di valenze simboliche e di sterzate fantastiche dove rientrano esseri d’una natura reificata o strumenti della cultura quali la scrittura e la riflessione sull’arte (si pensi almeno alla sua terapia di conoscenza dell’ambiente, operazione teorica che lo avvicina ai postulati messi in campo da Ugo La Pietra con il Sistema disequilibrante), i lavori di Ugo Marano sgranano la prevedibilità e se da una parte rendono palese il rapporto tra oggetto e individuo, dall’altra aprono a una intensa attività in cui mano mente e materia si intrecciano per far scivolare il pensiero sul ritmo delle cose, per sperimentare, per disegnare immagini di sogni che non possono sognarci e che forse giocano a guardarci.

 

Del suo ampio e impareggiabile percorso radical-concettuale-utopico messo in campo sin dal 1966, anno in cui ritorna a Cetara e realizza dei segna carta cubiformi (scomponibili in tre parti e a incastro perfetto) che emulano le onde del mare, questa mostra propone una vasto ventaglio di opere in cui si coglie un percorso polifonico («un magma visionario e calligrafico senza fine», «una poetica fuori dal tempo»)[3] scandito da tappe brillanti che mettono sempre sotto scacco la monotonia del quotidiano per dar luogo a oggetti e progetti provocatori, a teorie utopiche alimentate dalla lettura di Fourier e di Owen, a installazioni altamente rituali, a tensioni e a sensi multipli, a rotture rivoluzionarie dall’«indubbia originalità»[4] oltre le quali percepire un’immaginazione materiale che reclama un linguaggio non vincolato a valori di verità ma di realtà.

Accanto a una serie di maestosi vasi in cui si evince tutta la forza di un pensiero che coniuga la tradizione artigianale della Costiera Amalfitana all’innovazione determinata da una riflessione senza fissa dimora sugli strumenti dell’arte, AMARE IL MARE presenta anche delle sculture in lamiera di ferro realizzate dall’artista a partire dal 1967, anno in cui sente appunto l’esigenza di elaborare un discorso sugli Arrugginibili: opere numerate in progressione da 671 (dove 67 indica l’anno e 1 il numero specifico dell’opera) mediante le quali Marano innesca un naturale principio di invecchiamento del metallo e trasforma il tempo – come pure il mare, l’acqua salata – in materia dell’arte.

Una sfilza di sedioline in terracotta invitano, poi, a riflettere sulla sedia in quanto cifra semiotica «che mette in figura la sedialità»[5] e in quanto emblema d’una relazione tra estetica e design. Si tratta delle meravigliose Signore sedie dalla venatura antropomorfa realizzate a partire dal biennio 1979-1980 e ognuna indicata dall’artista con un nome suo proprio che ne evidenzia la singolarità: c’è la Sedia dei sogni interrotti, quella del geometra amico di Bonalumi, quella Con/creta, quella dell’alpinista in pensione, quella X Filiberto Menna e quella di Fontana, quella di Deleuze e quella di Argan, quella in architettura o ancora quelle (difficili non ricordarle in questo breve ventaglio) dedicate ai giorni dell’anno, come Sedia 24 novembre, Sedia 16 dicembre o Sedia 18 dicembre.

Grandi piatti, alcuni lavorati anche con la tecnica della cucitura in fil di ferro (Ego Strumento del 1978 ne è esempio lampante), Sedia evviva (1979), Sedia del pensiero (1986) o Evviva! Sedia dell’accoglienza (1996) sono – assieme a poderose installazioni come Casa mia (1988) o ad alcuni tavolini sulla cui superficie il pensiero scivola felice – parti di un racconto disseminato, quasi inciampi oftalmici obbligati negli spazi del Castello Aragonese di Ischia, con l’idea di creare un grande Gesamtkunstwerk, un rapporto di partecipazione e allegorica sintesi tra le opere e lo spazio che le ospitano, un vibrante e toccante legame con un luogo, l’isola, a cui Marano è tornato più volte per ritrovare gesti creativi elementari, per sognare e disegnare una infinita e lenta capacità di meditare, per elaborare profezie e pagine d’amore senza fine.

 

I

SOLA

PIÙ

SETTE

ONDE LIBERE

UGUALE

LUOGO DI NASCITA

NUCLEO IN ESPANSIONE

 

una i sola

è un’isola senza acqua

senza alberi

senza nascite

è un territorio

che non riceve

è un luogo senza arenile

le onde prendono l’isola

ma vengono respinte

insieme ai granchi

alle conchiglie

alle materie di assaggio

 

UNA ISOLA

INVECE

È UN LUOGO PREZIOSO

È COME UNA OASI NEL MARE

UN MIRAGGIO CONCRETO

PER PERSONE DI CORAGGIO

 

ANDARE IN UNA ISOLA

È COME ANDARE SU UNA ALTA MONTAGNA

 

SU UNA ISOLA SI PUÒ ANDARE

COLLA BARCA

O A NUOTO

SU UNA ALTA MONTAGNA

SI PUÒ ANDARE COLLA AUTOVETTURA O A PIEDI

CI SONO ALISCAFI CHE PORTANO SULLE ISOLE

E ELICOTTERI CHE PORTANO SULLE CIME DELLE MONTAGNE

 

CHI VA SULL’ISOLA A NUOTO

INCONTRA LE SIRENE

però

NUOTARE UNA ISOLA

VUOL DIRE AMARE UNA ISOLA

 

AMARE UNA ISOLA

SIGNIFICA PARTORIRE AVVENTURE AVVENTUROSE

MA PER PARTORIRE AVVENTURE AVVENTUROSE

BISOGNA AVVENTURARE L’AVVENTURA

[1]     A. Branzi, Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 12.

[2]     Riprendo qui, in parte e con le debite modifiche, quanto ho già scritto nel testo introduttivo (Cose di casa) alla mostra Ugo Marano. Insieme / Insiemi, a cura di A. Tolve, tenuta alla Galleria Pola Verrengia di Salerno (26 maggio / 30 giugno 2024).

[3]     A. Mendini, Ugo Marano, in R. D’Andria, Ugo Marano. artista-radical-concettuale-utopico, Artem, Napoli 2014, p. 8.

[4]     G. Dorfles, Un artista duplice, in R. D’Andria, Ugo Marano, cit., p. 73.

[5]     E. L. Francalanci, Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna 2006, p. 79.

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