Dopo “L’angelo morto”, classificatosi come finalista in tre premi letterari e apparso anche in inglese per l’editore londinese Olympia Publishers, Mario Campanino ritorna nelle librerie con “Vendesi uomo”, per Ronzani Editore, disponibile anche online dallo scorso 22 maggio. Di pochi giorni fa la notizia che i suoi versi sono stati scelti per comporre l’antologia celebrativa dei duecento anni dalla nascita di Fëdor Dostoevskij, in uscita nel prossimo autunno.
Nato a Milano il 9 dicembre 1967, trasferitosi a Napoli con la famiglia poco prima del terremoto del 1980, di formazione molto eclettica (diploma di perito aeronautico e poi laurea in estetica musicale con una tesi su Pierre Boulez), nel suo linguaggio fatto di negazioni e sviamenti si trovano forse le tracce del vissuto di un mondo complesso e difficile da comunicare. L’abbiamo incontrato per chiedergli le ragioni di questa complessità.
I lettori lo sanno, il linguaggio della poesia talvolta appare straniante, ricco e diverso. Perché anche “Vendesi uomo” è così?
Vede, chi scrive può avvertire la necessità di accrescere le possibilità del linguaggio usuale, perché ritiene che il suo potenziale espressivo sia debole. Nel mio linguaggio io cerco di attuare quella che chiamo “curvatura dello spazio semantico”. Prendo questa espressione dalla fisica, dalla curvatura dello spazio, ad opera della materia, che genera la forza gravitazionale. La parola poetica deve insinuarsi nello spazio che c’è fra significante e significato e curvarlo, perché la poesia non solo esprime ma “inventa” significati nuovi. Sta poi al lettore decidere di cosa accontentarsi e fin dove vuole spingere la sua personale attività di comprensione di nuovi significati.
Infatti, anche nel suo libro ad un certo punto si legge che “chi vuole intendere intende”…
La poesia che ti lascia comodo a leggere sulla sedia sta inventando ben poco… la poesia deve farti rallentare nella lettura, e lasciarti sempre con l’impressione che c’era qualcosa in più che ti è sfuggito: poche parole ma troppo intense per esaurirsi in una lettura sola. Ecco perché io penso che non potrò mai essere un vero narratore, anche se ho pubblicato qualche racconto: a me le parole costano una fatica immane, e prima ancora di trovare le parole c’è la fatica di “vedere” i nuovi significati. Per me un poeta non è chi scrive poesie, è chi vede cose inesprimibili e cerca il linguaggio per dirle. La poesia non finirà quando smetteremo di scrivere ma quando smetteremo di vedere.
Mi permetto di citarle un suo brano da “Vendesi uomo”:
“Vendo passato
di primi paradisi originari
poi peccati assassinii tra fratelli
stragi di innocenti roghi di streghe
più guerre di religione
decimazioni di nuovi mondi
sterminio di ebrei e di animali
bombe sulle scuole dei bambini dilaniati
documentazione fornita su richiesta
pentimenti e redentori inclusi.”
Cosa ha visto prima di scrivere questo?
Ho visto che dentro una donna o un uomo c’è la storia, e credo che tutti noi siamo portatori più o meno sani di una storia umana che è anche atroce e forse casuale. Ricordo un passo dell’”Uomo senza qualità” di Musil in cui scrive che forse pochi al mondo hanno compreso davvero il corso della storia, ma in fondo anch’essi, nella contemporaneità, non sapevano bene cosa stesse accadendo. Ecco perché abbiamo il dovere di guardare, continuamente, di non ignorare la realtà anche là dove personalmente possiamo fare poco. Non si accettano sconti o facili assoluzioni: come in tutto “Vendesi uomo”, quello di cui qui si tratta è di comprendere fino in fondo la missione umana sul pianeta Terra. La poesia, esattamente come la scienza, è uno degli strumenti che ci aiutano a farlo.
Mario Campanino, Vendesi uomo, Ronzani Editore, 2024
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