Malacrescita, domenica 21 al Teatro Bolivar

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Domenica 21 gennaio, alle ore 21.00, torna sul palco del teatro Bolivar (Via Bartolomeo Caracciolo, 30), diretto da Nu’Tracks, Mimmo Borrelli che porta in scena “Malacrescita”, testo di cui è anche autore e regista, tratto dalla tragedia “La Madre: i figli so’piezze ‘i sfaccimme”. Lo spettacolo, prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, con le musiche di Antonio Della Ragione, narra la storia di Maria Sibilla Ascione, moderna Medea che, pur non uccidendoli, matura la vendetta di una vita di violenza e di soprusi sui suoi figli. Con l’intensità interpretativa che gli è propria, Borrelli ci catapulterà febbrilmente in una storia dolorosa ma colma di tenerezza.

«Nel testo originale – racconta Mimmo Borrelli – è la madre sopravvissuta a raccontare ormai esule, barbona e sola le sue insane gesta ai propri gatti, gli unici figli che le sono rimasti, di cui si circonda per farsi compagnia. Qui, invece, capovolgiamo il punto di vista, immaginando che tutti i protagonisti di questa storia siano ormai defunti e gli unici sopravvissuti agonisti giullari, diseredati, miserabili, siano i due figli, i due scemi che, dementi, rivivono i fatti tra versi, ricordi, rievocando le pulsioni, gli umori, i suoni, le urla, i mormorii della loro aguzzina … vestendo ed espiando attraverso i suoi lerci ed ammuffiti abiti gli intenti e i moniti di colei che li ha lasciati al mondo, ma abbandonati, come dei rifiuti, messi da parte, in disparte, come le discariche ricolme di vegetazione innaffiata dal percolato, rinchiusi tra le pareti di un utero irrorato di solitudine, dove l’unico gioco rimane e consiste nel rimbalzarsi, tra gli spasmi della loro degenerata fantasia, tra le folli trame insanguinate di questa tragedia, sul precipizio di un improvvisato altare tombale di bottiglie eretto in nome della loro mamma, ’u cunto stesso … la placenta, l’origine della loro malacrescita».

 

Credits:

Testo e Regia Mimmo Borrelli

Con Mimmo Borrelli

Musiche in scena Antonio Della Ragione

Disegno Luci Gennaro Di Colandrea

Collaborazione al progetto Luigi Ferrigno, Enzo Pirozzi, Placido Frisone, Tobia Massa

Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

 

Sinossi:

Maria Sibilla Ascione è un’ignara e innocente bambina, nel nome già destinata ad una condizione di metà Vergine innocente, metà Maga, strega furente e figlia di un noto camorrista del casertano, le cui origini materne la riportano a Cuma, nei pressi di Torregaveta… lì dove secondo la leggenda e le testimonianze di Virgilio, risiedeva la dimora della famosa veggente. Il padre, dunque, è un noto proprietario terriero dedito alla coltivazione, nei suoi appezzamenti infinitamente disseminati tra Mondragone, Villaricca, Villaliterno, Casal di Principe, del cosiddetto oro rosso (pomodori), senza disdegnare però (siamo nei primi anni Sessanta) di tanto in tanto il ben più redditizio smaltimento clandestino dei rifiuti tossici provenienti dalle industrie del nord, in cave abusive ricavate da alcune delle sue stesse tenute. Tale traffico illecito comincia difatti a fruttargli un immane giro di danaro, ed acquisire un immenso potere tra tutti gli affiliati. La bambina viene segnata dalle barbarie maschili fin dall’età di sette anni, quando il padre stesso per ignoranza e vuoi anche ingenuità, nella corsa patriarcale all’accaparramento sempre più spasmodico e frenetico di ricchezza, potere, e voglia di proliferare maggiormente anche col raccolto, inizia “pompare” i propri succitati ortaggi dal rosso e nefasto colore, pigmento foriero di sventure, poiché della stessa parvenza del sangue, in tal caso con degli estrogeni formidabili che ne accelerano la crescita in pochi giorni. Ignaro però degli effetti collaterali che questi possono avere su di una creatura di pochi anni e nel pieno dello sviluppo: ovvero la piccola Maria Sibilla figlia di appena sette anni, la quale mangiando spesso tale frutto in miriadi di salse e molto spesso, ne acquisisce rapidamente le stesse sintomatiche accelerazioni della crescita, determinandole un afflusso di mestruo precoce.

La nostra bambina cresce diventando una bellissima, intelligente, arguta adolescente, affascinata dal luccichio impolverato della curiosità libresca. Avviandosi agli studi di medicina, e alla pratica del canto lirico al conservatorio, insomma, si rifugia in una vita inebriata dagli studi, per dimenticare l’inaccettabile: essere figlia di un despota dedito alla distruzione ed allo sfruttamento dei suoi sudditi, devoti picciotti, delle sue terre e della povera gente, ovvero i suoi figli che ne subiscono le angherie, più spicciole, ma anche quelle future dovendo vivere in una terra infeconda macerata da scorie, portatrici insane di tumori, cancrene, avvelenamenti di ogni sorta. La famiglia, la stirpe sprofonda sempre più lentamente nella discarica di un genocidio inconsapevole.

Ma è a questo punto che arriva l’Anticristo, il Giasone risorto dai libri di scuola, tale Francesco Schiavone detto Sandokanne: intraprendente bulletto di periferia determinato e disposto a tutto, per favorire la sua ascesa al potere, tra le fila delle cosche camorristiche. Di costui Maria si innamora perdutamente e per lui compie ogni misfatto. La poverina per lui, dunque, distrugge se stessa e la sua famiglia uccidendo il fratello e facendo morire di crepacuore e collera il padre, fugge via e si nasconde straniera ed esule a Cuma, la terra dei suoi nonni dove però vi ritorna esule, scacciata e perseguitata da tutti. Qui nella sua latitante clausura rimane incinta. Nove mesi di vomitevoli strazi mentre Sandokanne intrattiene fughe amorose con diverse donne del paese, senza curarsi della poverina che come un utero deposito della sua prole di futuri delinquenti, commercianti di eco-balle, si ritrova nel “medeo” e forse anche amletico dubbio di uccidere quei figli che sono anche e soprattutto suoi, poiché è lei a portarli in grembo ma Maria porta avanti la gravidanza. Nonostante anche i tentativi di aborto, mediante espedienti sia magici che medici, pensati, mai messi e fino in fondo sommessi in atto, alla fine partorisce due gemelli. A questo punto però, la poverina con i due neonati al seno, scoprendo che le promesse del marito sono ricadute nel vano di nuove bugie e marachelle fedifraghe, riconsidera i suoi intenti abortivi non messi in atto e maledice Dio e la sua fede riposta in lui, per non averla spinta a tale scellerato intento, che di nuovo ricomincia a trapassargli pensieri e onirici ossessi. La madre assassina sopita e aggressiva, la parte maschile sempre segregata ed erroneamente riposta nel subconscio del femminile dalla bigotteria della fede: viene fuori. Viene fuori il mostro … colui che è segnato da Dio e di cui bisogna sempre avere paura. Maria in un momento di follia, attribuendo all’invidia ed alla fascinazione maligna e non alla cattiva denutrizione, la colpa di un latitante turgore dei seni, dunque di una mancanza del latte materno in periodo di allattamento, decide e comincia ad allattare o meglio avvinazzare periodicamente, ritualmente come in una messa pagana i figli neonati di parto gemellare per l’appunto con del vino. Ignara o forse anche conscia degli effetti disastrosi che l’alcoolico nettare dall’uva pigiato provoca poi in seguito ai nascituri, in un caldo ed afoso pomeriggio estivo prende una bottiglia ed attua il suo piano, determinando nei pargoli un degradamento di sindrome feto-alcolica che comporta: la testa deforme il labbro leporino, gli occhi storti, un ritardo cognitivo e seri problemi mentali gravi. Riducendoli in due mostri completamente scemi e distruggendo così definitivamente la stirpe di Sandokanne-Giasone pur senza ammazzarli.

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