Miseria e Nobiltà tra tradizione ed innovazione al Teatro San Ferdinando con Lello Arena nel ruolo che fu di Totò.

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Miseria e Nobiltà è il forse il più famoso testo di Eduardo Scarpetta, fama ulteriormente amplificata dall’altrettanto celebre trasposizione cinematografica del 1952 con Totò e Sofia Loren.

La commedia ha come protagonista Felice Sciosciammocca, nota maschera di Eduardo Scarpetta, e la trama gira attorno all’amore del giovane nobile Eugenio per Gemma, figlia di Gaetano, un cuoco arricchito.

Il ragazzo è però ostacolato dal padre, il marchese Favetti, che è contrario al matrimonio del figlio perché Gemma è la figlia di un cuoco. Eugenio si rivolge quindi allo scrivano Felice per trovare una soluzione.

Felice e Pasquale, un altro spiantato, assieme alle rispettive famiglie, si introdurranno a casa del cuoco fingendosi i parenti nobili di Eugenio. La situazione si ingarbuglia poiché anche il vero Marchese Favetti è innamorato della ragazza, al punto da frequentarne la casa sotto mentite spoglie come Don Bebè. Il figlio, scopertolo e minacciatolo di rivelare la verità, lo costringerà a dare il suo consenso per le nozze.

Riproposta più volte a teatro, ritorna anche per la stagione teatrale 2019/2020 -dopo una tournée in giro per l’Italia- al teatro dell’altro Eduardo più famoso di Napoli, figlio illegittimo del drammaturgo, e guarda caso, autore di un’altra nota messa in scena teatrale per la televisione.

Questa volta l’adattamento, a cura di Lello Arena – che veste i panni di Felice Sciosciammocca – e del regista Luciano Melchionna, cerca un equilibrio tra la devozione ad un caposaldo della drammaturgia partenopea e l’innovazione dello stesso, operando però delle scelte che sembrano propendere di più verso quest’ultima. Gli elementi di maggiore novità sono visivamente evidenti nelle scelte scenografiche, di cui alcune molto ben riuscite. Il rapporto di reciprocità, o meglio necessità, dialettica tra la miseria e la nobiltà è ben reso visivamente dalla contemporanea presenza della scenografia del misero sottoscala e della nobiliare e ricca casa del cuoco e il telo che scompare, letteralmente risucchiato all’interno delle finestre risulta una trovata per un cambio di scena molto spettacolare. L’uscita trionfale da una botola al centro del palco dei miserabili travestiti da nobili con costumi dal gusto kitsch (tipico dei cosiddetti cafoni arricchiti privi di buongusto) è un altro espediente, forse didascalico, ma efficace nel mostrare l’ascesa dagli “inferi” oscuri e squallidi al paradiso dalle pareti bianche della ricca dimora nobiliare. Lo spettacolo non è privo, visto il respiro innovativo, di alcune modifiche del testo originale come nel caso dell’uso di anglicismi appositamente storpiati.

Senza dubbio apprezzabili, i tentativi di modernizzazione del testo “scarpettiano”, provocano però un certo straniamento soprattutto negli spettatori abituati a versioni più aderenti all’originale, così come brevi riferimenti dialogici all’immigrazione, ai giovani che non vanno a teatro o leggono appaiono da un lato come momenti isolati che mal si amalgamano con il resto, ma dall’altro forniscono barlumi di spessore psicologico alle maschere “scarpettiane”. Degno di nota anche l’accompagnamento musicale (a cura degli Stag) funzionale alla sottolineatura espressionistica dei pochi momenti drammatici, uno su tutti quello degli spaghetti, gettati dall’alto come il cibo dato alle bestie affamate che voracemente lo divorano senza contengo alcuno.

La fame, soggetto della commedia, fonte di battute esilaranti, si rivela in quel momento di cesura tra i due atti in tutta la sua brutale drammaticità, vero motore attorno a cui ruota tutto il gioco della miseria e della…nobiltà appunto.

Un classico intramontabile anche nelle sue svariate rivisitazioni e imperdibile in particolare nel periodo natalizio, in cui in qualche modo se è possibile, l’opera risulta ancora più sentita specialmente dall’affezionato pubblico partenopeo.

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