Il Vesuvio è un vulcano dormiente, che sogna nel pericolo costante, ma destinato periodicamente svegliarsi. Dorme e veglia, prepara la veglia, prepara le casse di un funerale già programmato in tutti particolari, ma con l’ipocrisia della fertilità, della bellezza apparente della superficie dei paesaggi dell’abbondanza. Il Vesuvio è il doppio, come in teatro la sua visione è moltiplicata dai vettori sensoriali di chi lo interpreta e da chi lo ascolta. Il Vesuvio quando dorme accumula, accumula collera, violenza, indignazione, esplosione di morte che rinasce nella fertilità della terra e della vita.
Il Vesuvio è il vulcano di Napoli. Il Vesuvio è Napoli: è il suo bilanciere dorato di cocaina, il termometro nel culo di chi ha una febbre che non guarisce mai, lo specchio che si spacca ferendo a morte, in sangue di sacrificio necessario alla creazione, per poi ricomporsi da capo col nostro sangue, che a differenza di quello di S. Gennaro è “ghiarzo”, arso, scottato nel suo indotto ribollire. Il vulcano è anche un creatore, generatore, è una “vammana”, una levatrice di bastardi, una nutrice di esposti, di orfani dell’anima, dal quale nasce ogni cosa. Dunque è Dio, concretizzazione cinica, poiché senza l’effigiata iconografica rappresentazione, in terra, della creazione, Dio nell’abbondanza, nel dar vita alla vita così, della terra, dei mari, degli oceani, dell’atmosfera, delle prime forme di vita, da cui ha preso poi vita l’uomo dal fango. Ma è anche la morte, fautore di morte, la mano di dio, esecutore di giustizia quella giustizia, anche spietata che Dio stesso non può applicare, né vedere, né concepire poiché inevitabilmente per leggi di natura coinvolge anche gli innocenti e non può per questo essere a sua immagine e somiglianza. Quindi crea il suo opposto, il diavolo sprofondandolo sulla terra, come in una leggenda antica che racconta come la figura di Lucifero sia legata alle pendici di tale monte, Somma, cima sacra rispettata e anche odiata. Lucifero un tempo angelo sprofondato per compiere il terribile, scelto da Dio tra tutti perché, colui che lo amava di più, e solo chi ama ossessivamente può incattivirsi progressivamente e compiere meglio il male. Sulle ceneri i lapilli e l’ignimbrite lavica di questa schizofrenia, tra benessere e distruzione, vita e morte, giustizia e ingiustizia, coraggio e ignavia, camorra e onestà, omertà e denuncia, bene e male si muove l’uomo napoletano: ma catapultato in questa città figlia del fuoco e del diavolo, come un fauno, innocente nell’inconsapevolezza di essere, di pulsare, di vivere, di amare, come vive e ribolle la propria terra. Il napoletano è stato creato a immagine e somiglianza del suo territorio senza memoria: il Vesuvio non può avere memoria, poiché ogni volta che si sveglia il suo respiro distrugge il bello che ha creato in sonno e dunque disperato torna a dormire per immaginarsi un mondo migliore..
Ma chi non ha più memoria non ha futuro, e una civiltà senza futuro all’interno può essere sconfitta facilmente dall’esterno.
L’allegoria è fin troppo chiara: l’uomo vesuviano, il napoletano messo in condizioni di inferiorità di ghettizzazione sociale, di ingiuria spesso raziale, nel non ritenersi accettato dallo stato, nel non ritenersi stato nel ritenere lo stato un occupatore, nel ritenere lo stato la sua famiglia è un individuo destinato ad esplodere, è una bomba che cammina, distruttiva autolesionista nell’arrangiarsi sempre.
Questa esplosione è contagiosa, come la ramificazione a grafo ad albero di una nube ardente, colonna del mondo vorace che tutto travolge al tutto da pace. Contagiosa nella condivisione della paura di reagire. Napoli è una città in perenne guerra, ormai da secoli; è una città in perenne emergenza; in perenne sacco di avventori che usano questa emergenza per speculazioni milionarie; in perenne vergogna legata al filo dell’indifferenza, i cui testimoni inermi come spettatori ne scavalcano il ricordo, deragliando in qualcosa di sconosciuto, rispetto al quale è meglio essere indifferenti nel farsi i fatti propri, poiché si è indifesi; in perenne coscienza di tutto ciò senza reagire; in perenne pulcinellesca attesa di un padrone da servire, in cambio dell’elemosina di qualche beneficio; in perenne preghiera per il miracoloso avvento di un liberatore che non verrà mai; in perenne coscienza di essere un porto franco, comodo per le dissennate politiche di usurpatori del potere di Stato; in perenne sopravvivenza gitana di un popolo che si è contraddetto poiché ormai fermo, in sofferenza ma con la morfina dell’inevitabile mancanza di speranza rispetto all’agognato, ma sempre più propagandato, ma lontano cambiamento.
Ma non c’è più tempo. La livella che abbatterà tutto si sta destando. Siamo allo scolo residuale della più laida SPERANZA, dove le leggi misantrope del più forte e la consequenziale collera del più debole ha fatto diventare questa città un ghetto all’insaputa di chi la abita.
Napoli è il luogo ideale per perdere la speranza. Il nostro metronomo piroclastico lo sa.
Lo sanno anche alcuni dei suoi abitanti che invocando le grazie delle sette madonne Vesuviane messe a guardia per placare con lui dialogano come in un sabba in cui ci si chiede se è giusto sopravvivere andare avanti in questa città o se sia più giusto che questa città compia il suo destino suicidandosi tra le fauci del suo tutore lavico.
Viviamo un’illegalità estrema che non ci permette di alzare la voce.
NELLA RABBIA DI COMBATTERE SEMPRE DALLA PARTE DEL TORTO….
Il problema è che al sud non possiamo neanche combattere per la legalità, ma per una dignità nell’illegalità ed è questo il dramma.
Napoli
È una citta tanto violenta,
ossimorica di eccessi latente
nella contraddizione di un popolo sempre vinto
poiché diviso dal coraggio e dall’istinto
tanto infame quanto incredibilmente fraterna.
Tanto ed egoista nella fortuna,
quanto solidale e generosa nella sciagura
della già infame tragedia.
Poiché la sconfitta ci accomuna
Perché siamo na chiorma di zingari
che da nomade a stanziato e fermo
Recita la parte di un popolo sopraffatto.
Recitiamo il riso per coprire il magone.
Recitiamo il dolore per esorcizzarne gli effetti.
Ci lamentiamo mentre ce scannamme
’nta na guerra ’i muorte ’i famma
senza sape’ né il movente né ’a cundanne
Senza più futuro senza manco ’a famme
Per avere la sensazione almeno pe’ nu secondo
Di non essere dei poveracci, ma dei figli ’i ntrocchia
Di essere gente deritta e maje falluta
Di non essere uccisi ammazzati, ma assassini
Di non essere dei fessi, ma furbi,
fottere ’u prossimo pure pe’ ciento lire
e ’u pataterno ’a rentiera mentre rire.
A Napoli è sempre meglio farcela con un sotterfugio
quando t’ingegni e trovi il pertugio
della fregatura allora solo sei rispettato,
quando faje ’u furbo cu ’i ghiuoche ’i prestiggie
che con dignità e onesta rettitudine
pure si quanne sulo quanne muore te diceno
era fesso ma onesto e nu brav’ommo.
Il Vesuvio si desta, ma da giusto giudice prima di sferrare, analizza i perché di un suo eventuale agire da eventualmente rimandare: la Napoli con le sue incommensurabili e contraddittorie passioni; la Napoli degli affetti e degli amori; degl’incontri e degl’illusori sogni, patetici poiché rimarranno per sempre tali rinchiusi in un campo di concentramento addo’ ’u filo spinato so’ ’i vecarielle senza mai sole, abbandonato a se stesso; la Napoli dei luoghi comuni antitetica, la cartolina che tutti sgualciscono di lacrime finte d’incenso ed indifferenti, poiché mirano all’approvazione di un pubblico e di un popolo che per percorrere il corteo ad esequie di se stesso ha bisogno di consolarsi continuamente… e di ridere su quelle stesse lacrime… pe’ nun chiagnere.
Purtroppo però, alle canzonette pizzettate di mandolini a lutto, bisogna rispondere con le urla, la collera dei miserabili, le bestemmie, lo sdegno, il qualunquismo dei dannati, tra cui includo anche il sottoscritto! Napoli è una città insensata, superflua nella sua teatralità, scriverci qualcosa su con la pretesa addirittura di rappresentarla risulta pressocché, per l’appunto superfluo: si è già detto tutto, si è già cantato, sceneggiato, macchiettipizzato, maldaceizzato, vivianeggiato, eduardiato, alluccato, arrepezzato, sbrevognato, ricchiuneggiato.
Io ve la racconterò ma al contrario, senza le ipocrisie del dire dell’imborghesito mentire: sono partito dal contrario, come sempre faccio nelle mie peregrinazioni visionarie, mi sono immedesimato nel mio vessatorio stupratore soppresso, il mio doppio assassino-satiro-pedofilo che stavolta ha assunto le sembianze inquisitorie e ciclopiche del Vesuvio colto nel pieno delle sue contraddizioni spirituali: “che dall’alto della sua sapienza lavica e surforea … Napoli la vuole uccidere, lapetiarla, ammazzuccarla, accurtella’
‘a ponta ‘i curtiello comme nu granne guappo sfaccemmiello
‘nzomma insozzarla ‘i scuorno,
sempre che ve fosse ancora l’esigenza dato il livello ‘i cruenta pezzecaglia
che essa ha infinitesimalmente raggiunto ,
spazzarla via cu na scupata ‘i lapille ruciulianti ‘nzummo ‘u ffummo
di coriacee nubi ardenti
cu na renzecata scicca ‘i cunzeguenze,
foss’a ddicere ‘a sfaccimma l’uosemo ru’ niente,
una sguessa livella citando TOTO’,
raderla definitivamente al suolo cu nu sudario echeggiato di “ ‘O sole mio”
stunettiato ‘a nu cantante ‘i pianino,
cecato per giunta stunato!
Ca sta ‘nciarmanno na pusteggia ‘int’ a nu vico luciano,
addo’ nisciuno maje spuniscie ’i bbane!”
Il Vesuvio è un coro ubriaco, sbronzo sino all’orlo ’i malepatenze, prima o poi vomiterà tutto il suo rancore verdiato e biliare: essere stato creato per questo, radere al suolo i residui di un popolo gitano che proprio per il fatto di essersi stanziato prima o poi soccomberà assistendo inerme alla propria estinzione. Ma forse sto già monologando, dunque è opportuno concludere, aggiungendo soltanto un ultimo consiglio: questo canto disperato vorrebbe essere un esorcismo, senza isterie collettive, una purga morale degli SCHIANTI, le INGIUSTIZIE, gli AMORI, i TRADIMENTI, il sempre più invadente ODIO, che sempre più ci divide in tante tribù in conflitto, ’nzomma un elogio della vita, costantemente in punto di morte sin dalla nascita, sulla vita che dopo millenni di pedinamenti ancora ci sfugge…
Un vecchio saggio pulcinellesco, sveglia il gigante dormiente, dei bambini risalgono la cresta, sette anime votate alle sette madonne vesuviane si interpongono in un concertato serrato a difesa o a istigazione, a favore o a sfavore dell’annullamento della città più incoerente di bellezza del mondo.
Poiché talmente bella allo specchio da non sopportarsi e nello sfregio del viso deturparsi.
Ogn’uno si ergerà con le proprie arie a difesa del pubblico che rappresenta il referente ideale di questa città. Ogn’uno avrà il suo parere, ma le fughe da comporre sono terribili poiché alla resa dei conti bisogna anche sentire e dire ciò che nessuno mai vorrebbe udire.
Ma restano i bambini: di fronte a loro anche la natura si fermerà?
In voci bianche d’innocenza saranno capaci di continuare?
Capaci di cambiare le intonazioni del vivere civile?
Capaci di rifondare il ridere senile?
Capaci di dare almeno pe’ crianza
ai padri colpevoli, pietà e speranza?
La devastazione disumana dell’umano, non fa altro che sprofondare da diversi anni. Da molti anni, non ci accorgevamo che la nostra terra e quindi la nostra umanità si stava deformando: come un pescatore indomito che aspetta un mare pescoso sulla battigia, che pian piano si scioglie, sotto i piedi e sprofonda lì dove vi ritrova i suoi pesci in carcasse marce.
Desolazione emotiva di un sud alla deriva…
dall’obiettivo particolare di una piccola comunità bisogna estendere la riflessione a tutto un sud del mondo che da queste innumerevoli storie è ormai squarciato, nelle viscere della vana speranza di un futuro migliore, un domani. Ma da queste parti … il domani è di chi rimane vivo.
LOCANDINA
Dal 17 al 19 gennaio,
feriali ore 20.30, festivi ore 18
Napucalisse (oratorio in lettura)
di e con Mimmo Borrelli
musiche dal vivo Antonio Della Ragione