Una città misteriosa come un labirinto, concreta e immaginaria al tempo stesso, in cui, come in una galleria di famiglia, i fantasmi prendono vita e presenza: è la Napoli di Enzo Moscato, quella che appare sulla scena con lo scrittore, attore, cantante e regista napoletano.
Dopo il debutto nazionale di qualche mese fa al teatro San Ferdinando di Napoli, Moscato rimette in scena Occhi gettati. Un dé-coupage, 34 anni dopo, del quale firma testo, ideazione scenica e regia. Dal 24 marzo al primo aprile ridà vita nella Sala Assoli di Napoli al suo mondo, popolato di voci e corpi, accompagnato da 8 attori, Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Anita Mosca, Emilio Massa, Antonio Polito.
La scena e i costumi sono di Tata Barbalato; la selezione musicale di Dimomos; la produzione del Teatro di Napoli–Teatro Nazionale, Compagnia Teatrale Enzo Moscato / Casa del Contemporaneo.
Considerato già nel 1986, anno del suo debutto scenico, testo-chiave per addentrarsi nel variegato universo espressivo di Enzo Moscato, Occhi gettati si ripresenta in tutta la sua vivezza esplosiva di parole ed emozioni.
Non un monologo, piuttosto un polilogo, un polittico di voci, una sorta di lungo e rapsodico canto sospeso tra il tragico, il comico, il grottesco, il surreale. Che, se ha i suoni della parlata napoletana, tradisce e trascende, allo stesso tempo, qualsiasi luogo o circostanza ispirativa, per obbedire, invece, solo all’Assoluto Universo, senza referenzialità specifiche, di ciò che viene detto Teatro.
Di Occhi gettati – lavoro che dà il titolo a un’antologia di testi di Moscato pubblicata nel 2003 dalla casa editrice Ubulibri di Milano di Franco Quadri – l’autore annota: «Occhi gettati l’ho scritto e messo in scena oramai più di 30 anni fa. A distanza di tanto tempo, se dovessi definire, ancora oggi, cos’era – cos’è – e cosa voleva significare, per me e per il teatro, non saprei dire. Certo è che quando lo scrissi, venivo già da sei/sette anni di scrittura teatrale, diciamo così, canonica, ortodossa, e che avevo già vinto uno dei premi – forse il premio più importante in Italia – di drammaturgia; avrei potuto, dunque, riposare sugli allori e invece mi sentii in obbligo di rimettere tutto in discussione, per quel che mi riguardava. Di ricominciare daccapo e, se possibile, con un altro e più radicale linguaggio scenico che era, per me, quello della poesia pura.
Scrissi allora questa sorta di soliloquio infinito in versi, che è Occhi gettati: che potremmo definire, in breve, una sorta di picassiana Guernica, una sorta di grande incendio, di grande rogo, di grande olocausto, del discorso tradizionale sul teatro, e su Napoli, e su me, poiché noi tre siamo profondamente la stessa cosa. Nel bene e nel male, siamo la stessa. Di che parla quest’odierno Occhi gettati. Un dé-coupage, 34 anni dopo? Dei miei fantasmi, reali o immaginari. Del balletto di questi fantasmi, che è il balletto quaresimale e carnevalesco di me stesso e della città di cui sono carne e sangue».
Moscato aggiunge e sottrae, si dichiara infedele a se stesso, continua a sperimentare linguaggi ed emozioni. I suoi ‘miserabili’ abitano ancora le stesse ‘stanze’, persi e confusi come sono tra le vie dell’antica metropoli.