Tre compari musicanti, l’antropologo Paolo Apolito in Sala Assoli sabato 20.

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Un esperimento di teatro antropologico. Definisce così Paolo Apolito il suo Tre Compari Musicanti, che va in scena sabato 20 alle 20,30 e domenica 21 novembre alle 18,00 nella Sala Assoli, sede napoletana di Casa del Contemporaneo.

Scritto e interpretato dall’antropologo a domicilio (come ama definirsi) con la presenza di Antonio Giordano alle zampogne, alla chitarra battente e al canto, il monologo ha un lungo sottotitolo, Storie minime nella grande Storia: briganti, borbonici, francesi.
“Ho realizzato un monologo visuale – dice Apolito -. Ho pensato di lavorare su fonti, sulle mie ricerche ultradecennali sulla cultura popolare con Annabella Rossi e Roberto De Simone e su musiche, canti, e feste dei contadini del Sud. Ho conosciuto centinaia di contadini, sono stato a casa loro, ho condiviso il cibo e le parole. Mi sono sentito in debito nei loro confronti e in quelli di un mondo culturale ormai dimenticato. Così ho deciso di raccontare la loro storia”.

Il testo è ambientato tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 e si rivela un atto di accusa contro la miopia delle classi dirigenti di allora. Apolito racconta storie di povera gente dimenticata dalla Storia. Le definisce “vite minime esemplari”, come quella di una ragazza che viene stuprata e si vede rifiutata dalla famiglia. È sedotta da un ‘galantuomo’ e di conseguenza viene emarginata dal suo stesso gruppo familiare.

“C’è un evidente parallelo con i nostri giorni – continua -. Gli esclusi di oggi sono il milione di bambini in Italia che vive sotto la soglia della povertà. Il nostro Paese conta 5 milioni di poveri, praticamente un decimo della popolazione totale. Sono esseri umani invisibili, se ogni tanto non ce lo raccontasse la Caritas non sapremmo nulla di loro. È una cifra che diventa sempre più alta e meno gestibile. La nota di fondo è cercare di vedere la realtà dal punto di vista degli esclusi, il tentativo di aprire la mente alla nostra indifferenza contemporanea”.

Apolito pensa che, limitata alle aule universitarie, l’antropologia serva a poco o a nulla. “Invece di aspettare che nelle aule arrivassero le persone, ho deciso di andare io da loro. In genere porto il mio spettacolo nelle piazze e nelle case, sono a disposizione di chi voglia ascoltare. Il mio è un lavoro di divulgazione culturale su cui sfido anche gli addetti ai lavori. Ho scelto il teatro perché credo molto nella dimensione dei corpi e il palcoscenico restituisce molto più di un libro. La musica ha un ruolo importante: nel paese di cui parlo si faceva musica per comunicare tra gli abitanti. La vita procedeva musicalmente. Oggi non più”.

 

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