Architetti, ecco come saranno le città dopo il coronavirus. La relazione dell’Osservatorio unità di crisi Covid 19 di Napoli.

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L’Ordine degli Architetti PPC di Napoli e Provincia, a seguito della emergenza epidemiologica, ha ha costituito il tavolo permanente “Osservatorio Unità di Crisi_Covid_19”, al fine di raccogliere dati, organizzare incontri e dibattiti sulle architetture ed i luoghi urbani per verificare l’incidenza della pandemia sulle nostre abitazioni e sulla città in generale.

Il coordinatore del tavolo Antonio Ciniglio, Consigliere dell’Ordine degli Architetti PPC, in questo lungo periodo di emergenza, invitando esperti in Architettura, urbanistica ed in diverse altre discipline, ha organizzato una serie di incontri sul tema della casa, degli spazi pubblici e della città, per evidenziare le diverse ipotesi sulla città che verrà analizzando soprattutto la nuova fragilità della struttura urbana e degli spazi pubblici.

In uno dei tanti incontri si è svolto il dibattito sulla “Città del dopo – Per un ritorno alla diversa normalità”, sono stati invitati i seguenti relatori: Arch. Claudio Bozzaotra – Presidente Fondazione SiebenArchi _architetti urbanisti designers; Prof. Arch. Renato Capozzi – Università degli Studi di Napoli Federico II; Prof Arch. Maurizio Carta – Urbanista – Università degli Studi di Palermo

Arch. Michele Cuomo – Compasso d’ Oro 2015; Arch. Raffaele Cutillo – OfCA _ Officina Cutillo Architetti; Prof Arch. Giovanni Fiamingo – nextbuild – urban project – Milazzo (ME); Prof Arch. Massimo Pica Ciamarra – Pica Ciamarra Associati.

Ecco la relazione finale dell’incontro:

La fragilità e l’inconsistenza che l’umanità ha appena sperimentato con la crisi del Covid_19 apre scenari molteplici e speranze di cambiamento. Scenari di rifondazione e riequilibrio negli insediamenti umani e speranze di riconquista di una diversa normalità.

Appare urgente la loro ricomposizione in una rinnovata visione di futuro, attraverso una riflessione capace di coniugare la preoccupazione per i destini di migliaia di cittadini con l’evidenza di dover ricostruire su basi diverse il futuro dei rapporti sociali, delle dinamiche produttive, delle relazioni del destino dei territori e delle persone.

Questo implica il voler trasformare la crisi in risorsa, in momento di crescita e di vero sviluppo sociale e spirituale, ponendo al centro della riflessione il concetto di (nuova) qualità che deve improntare le trasformazioni antropiche e l’architettura in senso ampio.

Va quindi riaffermato con decisione che la risposta – in architettura come negli spazi della città – non è mai solo ed esclusivamente rivolta al funzionamento della stessa ma è sempre una risposta che esprime la complessità dell’Abitare attraverso le forme dell’Architettura. Una “forma” adeguata e rispondente, non solo all’uso e ai nuovi bisogni e cautele ma, soprattutto e sempre, al senso. Come diceva Wittgenstein “l’architettura è pensiero che vorrebbe prender forma”.

C’è necessità di trasformare concretamente i nostri ambienti di vita, rendendoli adatti al futuro che s’intravede evitando di cadere nell’insana nostalgia del “com’era / dov’era” o nelle trappole di impossibili città ideali. Non “rammendare” parti sbagliate, ma “rigenerarle”, “re-immaginarle” attraverso un cambiamento che coinvolge il modo stesso di pensare il progetto.

Significa favorire la questione ambientale ora priorità a scala planetaria; immettersi sapientemente nei paesaggi senza venir meno alle diverse culture; considerare la specificità di ogni luogo tenendo conto dei valori e delle ambizioni delle comunità.

Quindi tre scale diverse con le quali, il progetto, deve fare i conti.

Non più progetti che esprimono egoismi, ma che privilegino relazioni materiali o spesso soprattutto immateriali. Far sì che ogni azione divenga un tassello per costruite città, resilienti, anti fragili, flessibili. Dove lo spazio pubblico diventa fondamentale per la città così come noi mediterranei, italiani ed europei la intendiamo, diversamente da altrove. Mai più zoning o compartimenti funzionali ma facendo attento uso delle risorse, evitando sfridi, soprattutto di tempo, quest’ultimo una risorsa preziosa che non va consumata.

Progettare innanzitutto è rispondere a domande sensate da chiunque attuato; dimostrando soluzioni più rapide, più economiche e capaci di collaborare per fini di equità e coesione sociale. Dove la mobilità, che non è tema separato, è strettamente legata al disegno e all’organizzazione di una città; così come la vendita degli alimenti, la segmentazione della città e il riflettere su temi più visibili e meno visibili. Quindi ripensare lo spazio domestico e lo spazio pubblico rifacendosi, magari, ad un campione di media dimensione.

La vera questione è come “ridisegno e trasformazione” degli spazi fisici, possano incidere sulla domanda sociale, affinché l’armatura della “forma” sia condivisa con la collettività e capace di trasformare, in termini materiali, i nostri contesti, affinché contribuiscano a determinare condizioni di benessere, sostanziali per il vivere insieme. Tenendo ben chiaro che la telematica – in ogni sua forma – è sì strumento e risorsa preziosa, ma che nella didattica, la Scuola e l’Università, sono soprattutto occasioni di incontro e di scambio.

Immaginare (o costruire) un futuro dell’architettura (e dell’architetto) delle città oltre la pandemia del covid_19, con la crisi ancora nel pieno dell’espansione planetaria, sembrerebbe l’unico atto possibile che possa in qualche modo placare l’istinto primordiale di sopravvivenza, che comunque alberga silente, ma costante, nelle nostre menti.

In una delle ultime interviste del compianto Aldo Masullo, paragonando la crisi virale alla guerra, mette in evidenza l’indeterminatezza del controllo del nuovo, nella rottura tra il “come eravamo” e il “come saremo” e come siano fragili i limiti della nostra struttura sociale, messa in crisi dal concretizzarsi del peggior scenario immaginabile della guerra batteriologica (anche se di origine naturale), posta di fronte alla consapevolezza di non poter più essere se stessa o prevedere trasformazioni a lungo tempo.

Gli effetti della crisi che incide direttamente sulla socialità, sui rapporti di vicinato, sui fondamenti dello stare insieme porterebbe, se considerata nuova funzione architettonica ed urbana, porterebbe ad un inevitabile isolamento delle unità abitative ed alla perdita di necessità degli spazi comuni che sono alla base del nostro riconoscerci. Uno stare insieme isolati è quel controsenso che aveva portato i SITE a proporre provocatoriamente i Grattacieli di Case (Highrise of Homes) dove la comunità verticale mette in evidenza quella garanzia di privacy propria dei villaggi/città giardino anglosassoni.

Ma le nostre città storiche stanno lì a testimoniare che, nonostante le guerre o le pestilenze, l’abitare in comunità nelle piazze e nelle strade è sostenibile nel lungo periodo.

Certo qualcosa dovrà cambiare: si dovrà orientare lo sforzo progettuale verso il recupero dell’esistente predisponendolo verso le micro comunità (sull’esperienza delle corbusiane immeubles villas), innalzare gli standard minimi abitativi per consentire un confort maggiore in caso di futuri auto isolamenti, incrementare la dotazione di alloggi sociali per i senza fissa dimora, rivedere profondamente gli assetti funzionali degli ospedali e cogliere l’occasione per recuperare tutti gli ex sanatori (contenitori urbani in disuso da decenni) per le quarantene e/o per alloggi di emergenza, sostenere e promuovere il recupero degli esercizi di vicinato nella consapevolezza che è finito il tempo della grande aggregazione dei centri commerciali. Nel prossimo futuro nuove funzioni, derivate dalla (anche temporanea) necessità di riduzione degli “assembramenti” e di nuove distanze tra persone imporranno cambiamenti e necessità di ri-progettazioni di spazi, relazioni, modi di vivere il privato ed il pubblico. Anche il mondo del design ed il sistema produttivo pubblico (che dovrà avere di nuovo un ruolo di primo piano) e privato dovranno affrontare seriamente il tema del “Design for Emergency ” (già oggetto di studi da diversi anni), evitando le improvvisazioni, gli sprechi di “tempo di intervento” e limitando (o riconsiderando) l’estensione del modello industriale del “just in time”, che riduce drasticamente le riserve di magazzino di materie prime e prodotti finiti, a questo nuovo settore strategico.

 

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