Lettera di un figlio (medico) di una malata oncologica.

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Oggi mi trovo all’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale, non come medico, ma come parente di un ammalato oncologico, mia madre.

Sono seduto tra tanti malati che speranzosi si affidano a medici ed infermieri perché hanno tutti il medesimo obiettivo: VIVERE! Glielo leggi negli occhi, quei soli occhi che si possono vedere, in quanto ora siamo tutti mascherati per evitare che il mostro COVID-19 si impossessi del nostro corpo e per questi pazienti potrebbe essere fatale.

Ho incontrato qualche amico con cui ho condiviso il percorso universitario e abbiamo avuto
qualche scambio di opinione, sia sulla pandemia in corso, che incide sui pazienti oncologici, in
quanto subiscono il rallentamento di esami diagnostici e visite di controllo, sia sul fatto che i
pazienti sono tanti, ma i medici nei reparti sono pochi e super caricati per riuscire a seguire ogni singolo ammalati in maniera esemplare.

Da quasi tre anni mi sento un ammalato anche io perché essere un figlio di un paziente portatore di una patologia oncologica, è peggio che avere la patologia in sé. Perché devi gestire la malattia, una malattia che non è strettamente tua, ma ti coinvolge ogni giorno. Ti coinvolge come figlio, ti fa sentire colpevole perché pensi che dovevi insistere di più nel convincere tua madre a fare quel controllo e quella visita; ti senti colpevole perché sei un medico e pensi che hai trascurato proprio lei come paziente.

E poi il senso di colpa aumenta perché pensi che non le sei stato abbastanza vicino; sei dovuto andare lontano a causa di un amore, l’amore di esercitare la Professione per cui hai sacrificato i pomeriggi, le notti del tuo tempo in gioventù; la Professione per cui la famiglia ha fatto rinunce per non farti mancare nulla e studiare serenamente; la Professione per cui hai dovuto e ha voluto fare un concorso tre volte, perché volevi essere un medico di famiglia come tanti altri medici in Campania, ma i posti non sono sufficienti per tutti e perché evidentemente prima di riuscire a superare quel concorso dovevi prepararti bene perché c’erano tanti altri colleghi più bravi e più preparati di te.

E poi tre anni di formazione post laurea sottopagato perché non potevi fare altro, a
parte turni di Continuità Assistenziale e sostituzioni di medici di famiglia, e continuavi a gravare sulla tua famiglia; turni e sostituzioni che riuscivi a fare se interagivi con colleghi per bene, altrimenti ti ritrovavi a dover lottare per un misero turno di Continuità Assistenziale o per farti pagare il giusto da un medico di famiglia.

Quando poi sei arrivato al traguardo, il diploma post laurea in medicina generale, in Campania
devi scegliere tra essere precario nella tua terra oppure andare a 800 km di distanza, a causa di perseveranti ritardi della macchina regionale nel pubblicare e assegnare gli ambiti carenti di
medicina generale in Campania.

Questo senso di colpa che ti attanaglia quotidianamente. Allora ti adoperi per capire da chi o cosa dipende il problema; ti rivolgi ad autorevoli dirigenti sindacali della medicina generale, all’Ordine dei Medici Chirurghi a cui sei iscritto, ma ognuno di questi attori sostiene che la responsabilità non è propria e sostengono che l’ente regionale è in carenza di personale e questo è. Certo una carenza che dura da oltre venti anni, è strana.
Ma non ti rassegni perché quel senso di colpa bussa ogni giorno e confrontandoti con i tuoi
colleghi, ascolti tante storie di vita vissuta e comprendi che il problema non ce l’hai solamente tu, ma due generazioni di medici campani, con svariate problematiche legate all’inadempienza di Regione Campania, parcheggiati in una graduatoria regionale di 2000 persone.

Allora denunci, ti affidi ai mezzi di informazione, ma a parte qualcuno realmente intellettualmente onesto, quelli importanti, quelli nazionali, non si curano del problema, nonostante coinvolga l’assistenza medica territoriale dei Cittadini; anzi qualcuno ti accusa che il problema è solo tuo personale e praticamente sono cavoli tuoi! Eppure i giornalisti dovrebbero racontare sempre la verità, a prescindere se è scomoda per uomini e donne detentori di cariche istituzionali!

Allora si fa gruppo, si manifesta, ma la cosa non cambia, come ci fosse un qualcosa che non può e non deve cambiare.

Ogni giorno quella malattia ti attanaglia e cerchi di conviverci e spieghi a tua madre incredula che la problematica dei medici di medicina generale in attesa di convenzione in Campania non è di rapida risoluzione e che ti devi dividere, finché riesci, tra la Professione che eserciti al Nord Italia e alla sua assistenza come figlio e come medico-figlio perché lei fondamentalmente si affida a te, sia sul piano strettamente clinico, che psicologico.

Senza rassegnazione continui a lottare, ti affidi anche alla Magistratura, che però non ritiene
urgente esprimersi sull’assistenza di un figlio per una madre oncologica. Eppure tua madre ti
chiede ogni giorno perché non interviene l’Ordine dei Medici, non intervengono i Sindacati, ed è difficile spiegarle a lei, che ha una cultura popolare e vede noi medici come essersi giusti che si prodigano e si sacrificano per aiutare il prossimo, che sia l’Ordine, sia le Organizzazioni sindacali sostengono che non hanno competenze nel risolvere questa problematica collettiva, che riguarda anche il figlio e che, purtroppo, lo tiene lontano da lei, soprattutto in questo momento difficile per tutti, impauriti dalla malattia da coronavirus, che aumenta ancora di più il problema: fai ogni volta un tampone prima di correre da lei, attendi il referto e poi ti avvicini con tutte le precauzioni del caso.

Anzi! Qualcuno va dicendo che questo figlio è esaurito e pazzo perché sta urlando al mondo
quanta ingiustizia provoca l’inadempienza di Regione Campania e tenta di farlo passare come un poco di buono, come si faceva un tempo, quando chi andava contro corrente, veniva dichiarato pazzo o, peggio eretico, affinché la sua bocca fosse tappata per sempre, rinchiudendolo o bruciandolo.

Eppure non siamo nel Medioevo, ma siamo a fine 2020, e dovremmo essere Cittadini
di un Paese, dove vige lo stato di diritto, ma, purtroppo, ti accorgi che se sei figlio di un
impiegato, un operaio, vieni trattato come un numero e che i problemi scaturiti da una regione che non funziona, devono essere insabbiati e chi denuncia, da vittima, deve essere accusato di essere carnefice.

Allora cosa devo raccontare oggi a mia madre, che è seduta qui a fianco a me? Che viviamo in una terra dove la metodica di certe organizzazioni che, impauriscono, zittiscono, uccidono per soldi e potere, sono paragonabili anche per coloro che dovrebbero tutelarci e garantirci?
Su questo ammetto di arrendermi perché non sono capace di darle anche questa delusione.

Lettera Firmata

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