Foscolo e le leggi della comunità, incontro a Sorrento.

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La società che Foscolo vagheggia non si identifica certo con quella del regime napoleonico, né con quella della Restaurazione, ma è una comunità nazionale futura, legata alla tradizione classica, capace di dialogare con il proprio passato e di risuscitarne la «virtù»; una società fondata su una netta discriminazione tra le classi, dove il potere tocca alla classe dei proprietari terrieri, e agli scrittori spetta un ruolo di mediazione, di educazione, di testimonianza della verità. Nel definire la funzione sociale della letteratura, egli parte dalle origini storiche del linguaggio e guarda a Vico come al maggiore punto di riferimento. Il pensiero di Foscolo riconosce nella violenza e nell’oppressione dei dati costanti e insuperabili della vita naturale e sociale: ma la violenza può essere arginata, controllata e giustificata dai valori nazionali e dalla tradizione, che la letteratura deve mediare e celebrare in funzione del «vero».

Frequenta l’ultima generazione di scrittori legati al grande clima delle riforme illuministiche (Pietro Verri e Parini) ma anche gli intellettuali del disinganno rivoluzionario come l’Alfieri. Un altro gruppo teme sempre più vistosamente gli eccessi della Rivoluzione e nutre il proprio immaginario di rovine e di scenari desolati o insegue mondi e luoghi felici (Notti romane di Verri o la contemplazione della campagna di Bertola o Pindemonte), su tutto questo, per Foscolo, l’eredità degli antichi poeti era un’esperienza viva, che poteva ancora appartenere ai bisogni degli uomini contemporanei. Ecco allora che diventa il vate, che si  mette sulla scia degli antichi lirici. Con le Grazie: Aglaia, lo Splendore, Eufrosine, la Gioia, Talia, la Prosperità, nacquero «la musica, il ballo, l’eleganza degli arredi, la gratitudine a’ benefici, il desiderio di benificare, il religioso amore della patria, la dolce e serena pietà de’ mali altrui».

Le Grazie di Ugo Foscolo sono un esempio assai rilevante di un modo di intendere e di adoperare poeticamente la mitologia. Elaborate nel corso degli anni, tra il 1802 e il 1822, senza mai raggiungere una sistemazione finale, testimoniano la fedeltà del poeta a una lirica d’impianto sublime. Più che mostrare una distanza dalla storia, esse costituiscono un antidoto alla sua crudeltà. Il poema, infatti, elabora le figure del mito contro l’angoscia della violenza, in difesa delle idee costitutive della civiltà umana. Il racconto del mito costituisce esattamente la rappresentazione dei valori necessari e fondamentali, senza i quali non è possibile vita associata. Gli «affetti dilicati», come quelli che derivano dall’amore, dalla carità filiale e fraterna, dalla commiserazione, dall’ospitalità e da tutte le passioni comuni a tutte le umani condizioni, sono il centro di questo universo eterno di principi. La mitologia evidenza questi sentimenti, incarnando le idee nella realtà di personaggi ed eventi, essa si offre come il linguaggio stesso della poesia: trasforma un mondo astratto in storie visibili e concrete, che di quel mondo ideale sono l’allegoria. I tre inni delle Grazie si offrono come una prova di questo programma estetico. Nel loro insieme, delineano i tratti di un terzo universo, quello dell’arte e della bellezza, in antitesi con il regno della forza e con quello delle leggi. Difendono, con i modi della poesia, le ragioni della civilitas e della comunità contro la minaccia, sempre risorgente, degli istinti selvaggi e primordiali. Il programma, che ha sullo sfondo la lotta tra barbarie e humanitas, resta il medesimo e, al di là delle variazioni di stile o d’impianto, applica l’idea costante di una poesia «teologica» e «legislatrice». Le «ossa» dei morti non accendono più l’animo  a «egregie cose», come scritto nei Sepolcri, ma «fra le  messi biancheggiano insepolte». Quelle antiche favole, dunque, non sono funzionali a una semplice decorazione, ma conservano, nella loro sostanza, un significato morale e filosofico, che, alla maniera di Vico, si può estrarre dalle loro profondità. Perché questo avvenga, è indispensabile ritrovare la «concatenazione […] allegorica e teologica» che trasforma proprio quelle favole in qualcosa d’altro e ne fa la mitografia della civilizzazione umana: un racconto del processo senza fine con cui i popoli, sfuggendo alla barbarie delle loro origini, entrano nel mondo della storia,  nel tempo della comunità, inaugurando la fine dell’egoismo feroce dei singoli «figli della terra duellanti a predarsi». In questo senso, la contesa che si stabilisce tra il mondo feroce degli istinti e l’universo armonizzato delle Grazie mostra una dialettica senza fine. Ogni volta che gli uomini infrangono le leggi delle civiltà, ripiombano nel buio delle origini e più che mai, nelle stagioni dell’orrore e della forza, le Grazie rinnovano il loro ruolo di custodi della comunità: ricordando eternamente i valori e le istituzioni che le danno forma.

Aniello Clemente

 

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