“Preghiera, digiuno, elemosina: se volete essere i primi, date visibilità a chi vi sta dietro; se volete essere forti, sollevatevi nelle fragilità; se volete essere grandi, rendete grandi i più semplici fra di voi; se volete esprimere le vostre capacità, mettetele a disposizione di chi ritenete meno capace di voi; e se pensate di essere insostituibili, fate sentire unici chi vi cammina accanto.”
La lettera dell’Arcivescovo di Napoli Monsignor Domenico Battaglia per l’inizio del periodo di Quaresima.
Tutto parte dal sepolcro vuoto. Quando Gesù risorge tutto riparte dall’uomo, dai suoi occhi, dal suo cercare, tutto riparte dalla reazione davanti a quel vuoto. La scoperta del sepolcro vuoto non è solo un fatto ma l’esperienza di un’assenza che dentro, prima o poi, sperimentiamo.
L’assenza improvvisa dell’altro, l’assenza improvvisa di Dio, l’assenza improvvisa di motivazioni, l’assenza improvvisa di forze, l’assenza improvvisa di quello che hai avuto finora.
È importantissimo ed è profondamente umano poter dare senso e radici a quell’assenza, una forma a quel vuoto che genera disorientamento, che stigmatizza le fragilità e che rischia di leggere come ingiustizia la possibilità che invece è data di risorgere. Una scintilla di luce è capace di accendere un fuoco, una piccola fiamma ancora accesa e pur piccola è capace di illuminare candele spente.
Cerchiamo in noi questa radice, il senso che nel tempo la storia ci ha consegnato, il sapore che altri ci hanno raccomandato di custodire, la speranza che altri ci hanno insegnato a costruire.
È dentro di te la radice della gioia, della vita che non finisce, della vita interiore che apre spazi immensi, orizzonti senza fine, che scorge negli angoli bui delle strade gli angeli della notte, che scorge nelle delusioni la via del nuovo inizio, che scorge nella sofferenza la chiamata a farsi vicini.
La vita che in noi fa vivere è capacità di dire grazie, è vita che è generata dal grazie. La vita che fa vivere è vita capace di benedire, capace di riconoscere la presenza dell’altro come benedizione.
I poveri avrebbero molto da insegnarci. Sono i sepolcri vuoti del Dio risorto, sono la Sua presenza nella nostra storia. Povero è sempre colui che si mette in cammino e cerca.
I poveri, maestri del cercare interiore, camminatori nell’infinito di una sete che non trova risposte lungo le strade ma solo il calore del cuore, del loro e di quelli che incontrano.
I poveri ci possono parlare della semplicità delle cose e della vita. Ci possono dire dove si trova quello che stiamo cercando. Possono parlarci di orizzonti che per loro si aprono quando un altro semplicemente si accosta a loro.
Poveri siamo noi quando mendicanti di luce e di acqua, torniamo alla fonte, al pozzo della nostra liberazione . Al pozzo della presenza. Al pozzo della prossimità di Dio, della nostra nuova nascita.
La difficoltà che avvertiamo, l’incapacità di essere gratuiti, l’avviluppamento su noi stessi e
l’allontanamento dall’altro, quella solitudine che attanaglia l’anima anche quando non si è soli, non possono restare fuori dalla preghiera. Entriamo in questa tensione, entriamo nella profondità del nostro essere, entriamo nella dimensione dell’ascolto di noi stessi, dell’altro, di Dio. Convertiamo il nostro spirito. Lasciamo che il nostro cuore torni a battere per la misericordia del Padre. È lui che vuole incontrarci, è lui che ci conosce veramente, è lui che vuole farci conoscere il nostro desiderio più profondo, il suo sguardo su di noi, il suo chiamarci per nome.
La carità vive in noi, nelle nostre comunità, come amore capace di vedere l’altro, di accorgersi del povero, di dare un nome all’ingiustizia, di provare compassione, ma ha bisogno di percorrere le vie del tempo presente, con le sue difficoltà, i ritardi, l’indifferenza sociale.
Un amore che spera è un amore che crede nella capacità di cambiamento, nella conversione dei cuori, nel cammino che coinvolge tutti gli ambiti dell’esistenza personale e condivisa.
Abbiate sempre il coraggio di andare oltre: di credere nell’umano amato a tal punto da Dio da costituirlo via di salvezza; di avere fiducia nel futuro dell’uomo e della comunione fraterna; di accogliere
Dio nella prossimità degli ultimi della terra.
Sperare non è staccarsi dalla realtà presente, è avere i piedi ben piantati a terra, implicarsi e impegnarsi con coraggio, non cedere a logiche di potere e di sopruso, non cedere all’indifferenza o alla rassegnazione, fare un uso intelligente e costruttivo dei mezzi che oggi abbiamo a disposizione e che cambiano continuamente.
I volti e le oggettive ferite dei giovani ci ricordano che c’è di più! Un di più che sa andare oltre le apparenze, i silenzi e le chiacchiere vuote, il nichilismo nascosto nei talk show in diretta o in differita.
C’è di più. Non è un ritmo che cerco di dare artificiosamente alla speranza, ma un invito, nella consapevolezza che qualcosa di più profondo e importante c’è. In un mondo che sembra irretito dai sogni di una tecnica incapace di tendere all’autentico sviluppo dell’uomo, c’è il di più della nostra imperfezione irriducibile che ci rende unici nella sete che ci portiamo dentro, sete di libertà, bisogno di relazioni vere. Noi valiamo più di quanti “mi piace” riceviamo. Il nostro tempo vale più di una connessione, un sorriso e occhi che si incontrano valgono più di tante parole.
Abbiate il coraggio di credere come ha creduto Gesù, di sperare e amare come ha fatto lui.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). “Ecco ora il momento favorevole” (2Cor 6,2) … Credere al vangelo, credere che il regno di Dio non passa attraverso logiche di potere, che non si piega agli inganni della ricchezza, che è capace di risvegliare le nostre coscienze tiepide. La prossimità di Dio è in Gesù che si fa solidale con l’uomo servendo l’umano fino in fondo, assumendo la condizione degli uomini.
Che cosa è la fede se non il coraggio di voltarsi, convertirsi , al grido di dolore dell’umanità?
Questo è il vero senso del digiuno e anche il vero senso del cammino , è la speranza della nostra vocazione di figli e fratelli nell’unico Padre.
I giovani conoscono la frammentazione di progetti fittizi, misurano il vuoto di parole che nulla hanno a che fare con la normale vita concreta, conoscono i grandi spazi della comunicazione pregni di solitudine e segnati spesso dalla prepotenza. La loro fragilità può diventare opportunità, la loro fame di giustizia è già annuncio di risurrezione, per loro stessi e per l’intera comunità.
In questo Tempo di Quaresima mi fermerò a pensare e pregare soprattutto con loro, accanto a loro.
La ricerca di verità, di vie più giuste di attuazione del bene e di realizzazione autentica del mondo, è la vera risorsa che può liberare la nostra e l’altrui responsabilità. Lo testimoniano con la loro vita: il senso del cammino non è arrivare primi, ma camminare e arrivare insieme!
La vita ci sorprende. C’è sempre una mano tesa a dare, a rialzare, a incoraggiare. C’è sempre. Perché non la vediamo? I più poveri ce lo insegnano e ci muovono a pensare che nel nostro cuore c’è, forse nascosto in un angolo, il desiderio di un’attesa condivisa, di un cambiamento. Incontrarsi in questo desiderio è un vero prodigio. Incontro di sguardi, incontro di mani, piedi che si fermano per condividere il passo e ripartire insieme.
Non sono i grandi programmi che qualificano il cammino ma il tempo speso a renderci conto di questo amore che è già nella vita dei più poveri.
Camminare insieme diventa opportunità per dare respiro a chi ha la coscienza ripiegata su se stessa. La gratuità, l’amicizia, la lealtà, l’onestà, hanno gambe e arrivano lontano, hanno la forza per ricordarci il vero senso del nostro essere qui sulla terra.
La speranza crede nell’umano salvato e amato da Dio quando si impegna a cercare vie concrete di solidarietà, di condivisione, quando si apre all’amicizia sociale, al desiderio di costruire comunità. Un passo dopo l’altro, un cammino non finalizzato a risultati immediati e individuali, a risolvere tutti i problemi, ma al bene, di tutti e di ciascuno, alla comunione possibile di figli e fratelli.
Questo ci aspetta, amando lo spazio delle nostre relazioni, purificando la nostra “ambizione” che ci divide in primi e ultimi. Il senso è anche il compito, la promessa.
Prendiamoci questo impegno nella Quaresima che si apre e che ci prepara alla Pasqua di Gesù.
Questa fede ci dà respiro perché ha accolto la sfida di una reciprocità possibile e affidata, alla cura dell’altro e alla provvidenza di Dio. Fermarsi presso l’altro per riprendere solo insieme il cammino, al passo di chi resta indietro.
Carissimi giovani, fatevi sentinelle del mattino! “Allora la vostra luce sorgerà come l’aurora, la vostra ferita si rimarginerà presto. Davanti a voi camminerà la vostra giustizia” (Is 58,8).
È sempre notte quando si va al sepolcro dei nostri fallimenti, delle nostre disillusioni.
Ma è di notte che è bello attendere l’aurora. È di notte che ci si scopre attesi dall’aurora.
Giovanni Battista aveva detto di se stesso: “Non sono la luce” (cf. Gv 1,8). Se siamo veri con noi stessi e con gli altri, con il Signore, vedremo da dove viene la luce, da dove spunta l’aurora. Lì risorgerà anche il nostro grazie. L’attesa diventerà un attendersi reciproco… davanti a un sepolcro vuoto! La luce, accolta in noi, la vedremo risorgere negli occhi degli altri, la cercheremo ancora perché ne abbiamo visto l’origine. Ci saranno albe, ci saranno aurore, ci saranno tramonti a illuminare ancora il cielo… ma solo perché abbiamo visto sorgere dalla notte quella luce! Ed è speranza, oggi e sempre!
Preghiera, digiuno, elemosina: se volete essere i primi, date visibilità a chi vi sta dietro; se volete essere forti, sollevatevi nelle fragilità; se volete essere grandi, rendete grandi i più semplici fra di voi; se volete esprimere le vostre capacità, mettetele a disposizione di chi ritenete meno capace di voi; e se pensate di essere insostituibili, fate sentire unici chi vi cammina accanto.
“Voi piuttosto fatene un altro: un digiuno che sia profezia.
Astenetevi non tanto da un pasto, ma dall’ingordigia, dal sopruso,
dalla smania di accaparrarsi, dalle collusioni disoneste con certe forme di potere.
Più che privarvi di un piatto, privatevi del lusso, dello spreco, del superfluo:
ci vuole più coraggio.
Più che non toccare un pane, dividete il pane:
il pane delle situazioni penose dei disoccupati,
degli sfruttati, dei disperati che ci stanno attorno ”.
don Tonino Bello
† don Mimmo