“È una giornata di dicembre, sembra finalmente essere arrivato un po’ di freddo e cammino per le strade e i vicoli del centro storico tra colori, sapori e odori che riportano alla mente e al cuore ricordi dei Natali passati. Cammino, guardandomi intorno, cercando di catturare ogni dettaglio, ogni sguardo, ogni suono di questo periodo che dovrebbe essere magico. Cammino tra la gente, mi fermo a scambiare
parole di bene, di accoglienza, di speranza. Gli impegni di questo periodo sono tanti e mi sembra sempre di avere la sensazione che il tempo a disposizione non basti mai. Il tempo, che è la vera ricchezza di quest’epoca troppo spesso dominata dalla “signora Frenesia”, che governa le molte agende e svuota tanti cuori. Così, nel tentativo di fuggire al suo controllo mi sono immerso tra i turisti e gli artigiani di San Gregorio Armeno: ovunque statuine, presepi, pastori e animali, cesti di frutta in miniatura e scenografie che, più rappresentare la grotta di Betlemme, con il linguaggio simbolico del presepe partenopeo, raccontano di una nascita divina avvenuta proprio qui, nel bel mezzo della mia città, nel cuore della nostra Napoli. Tra una parola in inglese pronunciata da un turista e una frase in napoletano da parte di un artigiano che invita i passanti a visitare la propria bottega, i miei occhi si soffermano su un pastore, vestito da frate, con un saio marrone, i sandali ai piedi e il cordone ai fianchi.
E così, per un attimo, chiudo gli occhi, ascolto il cuore e penso a Greccio, a quel presepe di ottocento anni fa, voluto e sognato da Francesco, il Poverello, che volle vedere con i suoi occhi “il Bambino nato a Betlemme, (…) i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello” (Fonti Francescane).
Napoli, città dei presepi, Greccio, il paese del presepe, due realtà così diverse ma che nel Natale ritrovano il senso della vita, la forza della speranza, la capacità di tornare a stupirsi per il miracolo dell’esistenza. In fondo, mi sembra essere lo stesso stupore quello che attraversa lo sguardo e il cuore di Francesco e quello a cui da secoli gli artisti napoletani danno carne con il Pastore della meraviglia.
Entrambi hanno le mani vuote, nessun dono da poter offrire se non quello del proprio incanto, di una rinnovata infanzia la cui forza sta nel sovvertire la scala dei valori di questo mondo, troppo spesso inquinata dall’avidità, dal desiderio di potere e di dominio, dalla prevaricazione e dalla violenza.
Mentre spesso i nostri occhi brillano dinanzi alle vetrine dei negozi, quelli di Francesco si commuovono fino alle lacrime dinanzi a un po’ di fieno che diventa culla di un amore così folle da farsi carne, per condividere la debolezza e la fragilità di coloro che ama, tramutandole in forza e vitalità infinite.
Mentre le nostre mani cercano sempre di prendere, accaparrare, ricevere di più e sempre di più, passando da un falso bisogno ad un altro, in un circolo vizioso e consumistico, il Pastore della meraviglia, con le sue braccia allargate e le sue mani vuote, non ha altra brama se non quella di accogliere l’unica cosa che dà senso al vivere e al morire: l’Amore.
Si, perché il Bambino di Betlemme è tutto Amore, solo Amore, nient’altro che Amore. È amore che guarisce dall’odio e dall’indifferenza. È amore che risana le ferite del cuore. È amore che rimette in piedi, dona vigore ai sogni, muove la storia umana verso orizzonti di pace e di giustizia. È amore che rende gli occhi capaci di scorgere la luce anche nel bel mezzo della notte. Della mia notte, della tua notte, della notte del mondo.
E quante volte in questi ultimi anni ci siamo chiesti: quando arriverà la luce? Quando sorgerà l’aurora? Quando terminerà la notte del male, della violenza e della guerra? Quante volte questa domanda mi è stata posta dai ragazzi che incontro, dalle persone sofferenti che spesso mi capita di accogliere e ascoltare. E quante volte io stesso, nel profondo della mia preghiera, l’ho posta al Signore. E la risposta di Dio è sempre stata una sola: la tua notte, la notte nel mondo, termina quando il tuo cuore diventa fieno, la tua esistenza diventa culla, le tue parole diventano carezze, i tuoi sogni diventano voci di angeli che annunciano la pace, e la tua vita si trasforma in un presepe, capace di accogliere il Figlio di Dio, il suo Vangelo, il suo sogno di pace.
Accogliere il Vangelo della Pace, si è questo ciò che auguro a me e a tutti voi in questo Natale. E mentre, dal silenzio della mia cappellina, provo a scrivere questi miei auguri, forse a causa di un sonno che diventa sogno, immagino proprio qui, seduti accanto a me, Francesco e il Pastore della Meraviglia che mi chiedono di rinunciare alle parole di circostanza per invocare con loro, per me e per voi – magari proprio a partire da questo Natale – la possibilità di essere strumenti di pace, artigiani di fiducia,
costruttori instancabili di speranza, proprio come recita un’antica preghiera francescana:
Signore, fa di noi strumenti della tua pace:
ara il terreno bellicoso delle nostre esistenze,
rimuovi le pietre dell’odio, dell’orgoglio, della prevaricazione,
affinché tra le zolle della fraternità ritrovata,
si innalzi luminoso e fecondo il mandorlo
dell’unità e della concordia,
i cui fiori segnano la primavera del tuo Regno che viene.
Dov’è dubbio fa’ che portiamo la fede,
condividendo la fiducia in Te,
nel tuo amore che custodisce, cura, ama,
testimoniando la bellezza di seguirti sul serio,
senza troppi orpelli e fardelli,
facendo del tuo Vangelo “sine glossa”
la bussola che orienta ogni passo,
la fiammella che tiene accesa la speranza,
il balsamo che risana ogni ferita.
Dove è l’errore, che portiamo la verità,
senza l’arroganza di sapere tutto,
senza lo sguardo giudicante di chi si crede perfetto,
ma con il passo di chi si mette accanto e cammina insieme,
con l’umiltà di chi ha sperimentato sulla propria carne
l’errore del cuore, il desiderio di un senso,
la ricerca inquieta del significato,
fino a trovarlo in Te, Amore sorgivo, senso di ogni cosa.
Dove è la disperazione, che portiamo la speranza,
illuminando con la nostra solidarietà le notti dei piccoli e dei poveri,
accarezzando con la nostra tenerezza la vita di chi fa più fatica,
riempiendo con la nostra vicinanza la solitudine
di chi sente di valere poco agli occhi degli uomini
mentre ha un valore infinito agli occhi Tuoi,
Amore fatto carne, amico degli ultimi e dei marginali!
Dove è tristezza, che portiamo la gioia,
dove sono le tenebre, che portiamo la luce,
insegnando a scorgere anche nella notte più oscura
i segnali luminosi della tua Presenza,
condividendo con tutti l’arte sacra di saper trovare,
anche nei momenti più difficili,
un motivo per gioire e ringraziare,
imparando a danzare la vita sempre
e senza timore!
Oh! Maestro, fa che la nostra Chiesa non cerchi tanto
di essere compresa, quanto di comprendere;
di essere amata, quanto di amare,
affinché ogni donna e ogni uomo
possano sperimentare grazie al suo annuncio:
che è solo dando, che si riceve.
Perdonando che si è perdonati.
Morendo che si risuscita a Vita Eterna.
Amen”