Antonio Gaezza vendeva collanine di vetro in bella mostra su una bancarella in via Calata San Marco, stradina adiacente a piazza Municipio. Aveva 62 anni, una mamma centenaria da accudire, ed era sopravvissuto – come ricorderà l’indomani lo scrittore Luigi Compagnone sulle pagine del Mattino – ai bombardamenti del 1944, alla fame del dopoguerra, al colera del ’73 e al terremoto dell’80. Era il 14 aprile 1988, ore 19.49: fu un attimo e fu l’inferno.
L’esplosione della Ford Fiesta imbottita di tritolo creò uno scenario da guerra: automobili in fiamme, una colonna di fuoco che arrivava ai piani alti, vetri infranti, portoni divelti, brandelli di carne, le urla dei feriti, dolore e sangue. Antonio Gaezza non riuscirà a sopravvivere a quella guerra non dichiarata e portata nel cuore di Napoli da una cellula del terrorismo di matrice mediorientale – come si scoprirà nel giro di neppure 12 ore – che provocò la morte di altre quattro persone e una ventina di feriti, alcuni in condizioni assai gravi.
Obiettivo dei terroristi, il circolo statunitense Uso, dove in quelle ore era in programma una festa in onore del comandante del cacciatorpediniere Paul, attraccato il giorno prima al Molo Angioino. I terroristi, secondo una rivendicazione della Jihad islamica, volevano colpire l’America nella ricorrenza del raid aereo su Tripoli deciso come rappresaglia all’attentato a una discoteca di Berlino frequentata da militari Usa. In quella stradina lasciarono la vita una portoricana sottufficiale della marina americana, tre passanti e il venditore di collanine. Calata San Marco è anche la storia di una strage dimenticata, rimossa dalla memoria del paese come le due stragi di Fiumicino (1973 e 1985, complessivamente 53 morti e circa 150 feriti) e l’eccidio nel 1994 dei marinai, in massima parte della provincia di Napoli, della nave Lucina, all’ancora in un porto algerino.
Nessuna targa sul luogo dell’attentato a ricordare l’eccidio, mai una commemorazione pubblica se si eccettua la messa funebre celebrata dal cardinale due giorni dopo il massacro. In Calata San Marco sono oggi pochi a ricordare quell’attentato che è stato cancellato dalla memoria collettiva della città e della nazione. Al silenzio della società e delle istituzioni (all’epoca neppure il Comune si costituì parte civile) si aggiunge il sostanziale fallimento della giustizia. Nonostante l’autore della strage sia stato individuato in tempi brevissimi – grazie alle indagini della Digos con la collaborazione degli investigatori dell’Fbi – e condannato all’ergastolo, non ha mai pagato con un solo giorno di carcere il suo conto con la giustizia. Junzo Okudaira, dell’Armata Rossa Giapponese, già protagonista insieme con due connazionali dell’eccidio all’aeroporto di Tel Aviv (29 maggio 1972, 26 persone uccise per conto del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) non è stato mai catturato.
A lui gli investigatori arrivarono grazie all’impronta digitale su una ricevuta rilasciata dall’agenzia dove aveva preso a noleggio la Ford Fiesta utilizzata per l’attentato. Il riconoscimento da parte di diversi testimoni che individuarnono, grazie alla foto segnaletica, in lui l’uomo notato più volte mentre si aggirava nella zona, escluse ogni dubbio sul suo coinvolgimento. Oggi avrebbe 69 anni, quattro in meno della sua presunta complice, la cognata Fusako Shigenobu che, processata anche lei in contumacia e assolta per insufficienza di prove dalla Corte di Assise di Napoli, fu invece arrestata in Giappone 18 anni fa. I presunti complici di Okudaira – due nordafricani, secondo le testimonianze – non sono stati mai identificati. (ANSA)