Gli ultimi anni, segnati da livelli di crescita misurata in pochi o nessun punto decimale del Pil, hanno cambiato il Paese. In risposta alla recessione, la società italiana si è mossa quasi esclusivamente lungo linee meridiane, attraverso processi a bassa interferenza reciproca, con l’effetto di disarticolare le giunture che uniscono le varie componenti sociali. Abbiamo assistito a processi di progressiva disintermediazione, che hanno finito per sottrarre forza ai soggetti e agli strumenti della mediazione; all’affermazione di consumi mediatici e di palinsesti informativi tutti giocati sulla presenza e sulla rappresentazione individuali, con un linguaggio spesso involgarito; all’assestamento verso una sobrietà diffusa nei consumi, aprendo spazi all’economia low cost e alla condivisione di mezzi e patrimoni. La contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi sulla ripresa di capacità competitiva. Così, tanti settori nell’anno hanno accelerato in fatturato e produttività: dall’agroalimentare all’automazione, dai macchinari alla nautica e all’automobile, dall’ingegneria al design e al lusso.
Si sono però indebolite le funzioni selettive esercitate dalla politica industriale e di investimento, con uno spostamento verso interventi a pioggia con i bonus o i crediti di imposta, e con programmi orientati alla rimodulazione lineare della spesa più che al sostegno del tessuto imprenditoriale. Si sono quasi azzerate le funzioni di innervamento da parte delle amministrazioni pubbliche dei principali processi di miglioramento tecnologico, con un ritardo nella digitalizzazione della macchina burocratica divenuto patologico, con una inefficiente dispersione dei tanti progetti di informatizzazione, con una preoccupante incapacità di fermare investimenti finiti in un vicolo cieco e con un quadro via via più incerto su come tradurre in passi concreti il riallineamento all’agenda europea. Le riforme dell’apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, il rammendo delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono rimaste prigioniere nel confronto di breve termine. Con l’inevitabile conseguenza che, non avendo sedi dove portare interessi, identità, istanze economiche e sociali, gli stessi soggetti della rappresentanza proseguono il loro arretramento lasciando agire il frastuono comunicativo di presenza dei leader.
Siamo un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti.
Senza un ordine sistemico, la società ha compiuto uno sviluppo senza espansione economica. La società appare sconnessa, disintermediata, a scarsa capacità di interazione, a granuli via via più fini. La ripresa registrata in questi ultimi mesi sembra indicare, più che l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del precedente.
In questi anni l’innovazione tecnologica è stata il fattore propulsivo dominante, il maglio demolitore, il setacciatore di opportunità. La polarizzazione del lavoro determinata dalla domanda squilibrata verso professioni intellettuali ad alta competenza o verso servizi alla persona a bassa specializzazione professionale è una componente strutturale del progresso industriale dettato dall’innovazione. La fiducia verso il futuro cresce tra chi ha saputo stare dentro le linee di modernizzazione, meno tra chi subisce la fragilità del tessuto connettivo e di protezione sociale.
Il futuro si è incollato al presente. Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita. Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo, senza sostituzione, di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro. Ora il nostro futuro si prepara sul binomio tecnologia-territorio: sulla preparazione alla tecnologia con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di rappresentanza politica ed economica.
Quando l’esploratore inizia il suo cammino ha dietro di sé un’intensa preparazione tecnica: degli uomini, dei mezzi di trasporto, delle attrezzature, delle alleanze necessarie a finanziarie l’impresa. Soprattutto, ha dentro di sé l’immaginazione del suo viaggio, di quel nuovo mondo che è quasi una promessa di futuro. Immaginare e preparare sono per il viaggiatore le azioni costitutive. Nella stessa misura, i gruppi sociali e i singoli individui hanno bisogno di immaginare il futuro, di riconoscersi in cammino verso un miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali.
La politica invece ha mostrato il fiato corto, nell’incessante inseguimento di un quotidiano «mi piace», nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori pubblici sono rimasti intrappolati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla politica industriale, dall’agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro.
Se chi ha responsabilità di governo e di rappresentanza si limita a un gioco mediatico a bassa intensità di futuro, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale.
E l’industria va. La ripresa c’è, come confermano tutti gli indicatori economici. Ad eccezione degli investimenti pubblici: -32,5% in termini reali nel 2016 rispetto all’ultimo anno prima della crisi. Dal 2008 la perdita di risorse pubbliche destinate a incrementare il capitale fisso cumulata anno dopo anno è di 74 miliardi di euro. È l’industria uno dei baricentri della ripresa. L’incremento del 2,3% della produzione industriale italiana nel primo semestre del 2017 è il migliore tra i principali Paesi europei (Germania e Spagna +2,1%, Regno Unito +1,9%, Francia +1,3%). E cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell’anno. Il valore aggiunto per addetto nel manifatturiero è aumentato del 22,1% in sette anni, superando la produttività dei servizi. Inarrestabile è la capacità di esportare delle aziende del made in Italy: il saldo commerciale nel 2016 è pari a 99,6 miliardi di euro, quasi il doppio del saldo complessivo dell’export di beni (51,5 miliardi). La quota dell’Italia sull’export manifatturiero del mondo è oggi del 3,4%, con assoluti primati in alcuni comparti: 23,5% nei materiali da costruzione in terracotta, 13,2% nel cuoio lavorato, 12,2% nei prodotti da forno, 8,1% nelle calzature, 6,8% nei mobili, 6,4% nei macchinari.
Le filiere italiane che brillano nelle catene globali del valore. L’export italiano corre e aumentano le aziende esportatrici: 215.708 nel 2016, circa 10.000 in più rispetto al 2007. Il 69,1% del valore esportato è appannaggio di grandi imprese che esportano annualmente merci per un valore superiore ai 15 milioni di euro distribuite in un numero elevato di Paesi di destinazione. Brillano la creatività per il comparto moda, la tipicità per l’alimentare, il design nell’arredo. E nel comparto delle macchine utensili l’Italia ha raggiunto nel 2016 il 5° posto nel mondo per valore della produzione (dopo il colosso cinese, la Germania, il Giappone e a brevissima distanza dagli Usa) e il 3° tra i Paesi esportatori (dopo Germania e Giappone). In questo comparto sono previsti 5,9 miliardi di euro di produzione a fine anno. Se negli anni della crisi il traino è stato l’export, nel 2017 le consegne di macchinari sul mercato interno, scese a 1,1, miliardi di euro nel 2013, supereranno i 2,5 miliardi grazie anche al piano Industria 4.0.
Il benessere soggettivo e la cash and black economy. Gli italiani vivono un quieto andare nella ripresa dopo i duri anni del «taglia e sopravvivi». Tra il 2013 e il 2016 la spesa per i consumi delle famiglie è cresciuta complessivamente di 42,4 miliardi di euro (+4% in termini reali nei tre anni), segnando la risalita dopo il grande tonfo. Non sono soldi aggiuntivi per tornare sui passi dei consumi perduti, ma servono per accedere qui e ora a una buona qualità quotidiana della vita. Nell’ultimo anno gli italiani hanno speso 80 miliardi di euro per la ristorazione (+5% nel biennio 2014-2016), 29 miliardi per la cultura e il loisir (+3,8%), 25,1 miliardi per la cura e il benessere soggettivo (parrucchieri 11,3 miliardi, prodotti cosmetici 11,2 miliardi, trattamenti di bellezza 2,5 miliardi), 25 miliardi per alberghi (+7,2%), 6,4 miliardi per pacchetti vacanze (+10,2%). Dopo gli anni del severo scrutinio dei consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. La somma delle piccole cose che contano genera la felicità quotidiana: è un coccolarsi di massa. Ecco perché il 78,2% degli italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce. E ora il 45,4% è pronto a spendere un po’ di più per poter fare almeno una vacanza all’anno, il 40,8% per acquistare prodotti alimentari di qualità (Dop, Igp, tipici), il 32,3% per mangiare in ristoranti e trattorie, il 24,7% per comprare abiti e accessori a cui tiene, il 17,4% per il nuovo smartphone, il 16,9% per mostre, cinema, teatro, spettacoli, il 15,2% per attività sportive, il 12,5% per abbonamenti pay tv o a piattaforme web di intrattenimento. Come viene pagata questa felicità soggettiva quotidiana? Digitale, low cost e anche tramite le rotte cash del neo-sommerso: nell’ultimo anno 28,5 milioni di italiani hanno acquistato in nero almeno un servizio o un prodotto.
Cultura e entertainment come passepartout della contemporaneità. Negli ultimi dieci anni, pur messe duramente alla prova dalla crisi, le famiglie hanno destinato ai servizi culturali e ricreativi una spesa crescente: +12,5% nel periodo 2007-2016, contro il -9,6% nel Regno Unito, -8,1% in Germania, -7% in Spagna (solo in Francia si è registrato un +7,7%, comunque meno che in Italia). Nell’ultimo anno il 52,2% degli italiani (29,9 milioni) è andato al cinema: +5,1% in un anno e +6,7% di biglietti venduti. Gli italiani visitatori di musei e mostre (il 31,1% della popolazione: 17,8 milioni) sono aumentati del 4,1% e gli ingressi del 6,4%. Si segnala poi il boom di acquisti di device digitali: smartphone +190% nel periodo 2007-2016, personal computer +45,8%. Gli utenti di internet che guardano film online sono aumentati dal 19,5% del 2015 al 24% nel 2017 (il 47,4% tra gli under 30). E l’11,1% degli italiani (il 20,6% degli under 30) utilizza piattaforme digitali per lo streaming on demand.
Turismo da record, tra piattaforme digitali e poliedricità dell’offerta. L’Italia è sempre più attrattiva per il turismo domestico e internazionale. Nel 2016 gli arrivi complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni, con una componente dei visitatori stranieri attestata al 49% del totale. Rispetto al 2008 si registra un incremento degli arrivi del 22,4% e dei pernottamenti del 7,8%. Cresce di più la componente straniera dei flussi turistici: +35,8% gli arrivi e +23,3% le presenze nel periodo considerato. E cresce di più la componente extralberghiera della ricettività: +45,2% di arrivi dal 2008 (addirittura +64,3% di arrivi stranieri) e +10,9% di presenze, a fronte rispettivamente del +17% e +6,4% riferito alla componente alberghiera. Sono proprio gli esercizi extralberghieri ad avere incrementato maggiormente il numero delle strutture attive (+36,9% dal 2008) e dei posti letto disponibili (+10,1%). Nel primo semestre del 2017 gli arrivi crescono di un ulteriore 4,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e le presenze del 5,3%: in soli sei mesi abbiamo avuto 2,7 milioni di visitatori in più, con oltre 10 milioni di pernottamenti aggiuntivi.
Il borsino delle città: quali guidano la ripresa e quali no. Negli ultimi anni la popolazione residente nei capoluoghi italiani è cresciuta di più rispetto alle cinture. Tra il 2012 e il 2017 nell’area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9%, quelli dell’hinterland del 7,2%. A Milano l’incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. L’andamento del valore aggiunto nelle città metropolitane nel periodo 2007-2014, anni in cui il Pil del Paese è calato di 7,8 punti percentuali, mostra che le grandi aree urbane del Sud (Napoli, Palermo e Catania) hanno subito un vero tracollo, perdendo circa il 14%. Le città metropolitane di Genova, Torino e Bari hanno registrato un calo superiore alla media nazionale (circa 10 punti percentuali). L’area romana (-8,6%) e quella veneziana (-7,2%) hanno avuto una dinamica negativa in linea con quella del Paese. Le città metropolitane di Firenze (-5,3%) e Bologna (-4,7%) hanno contenuto le perdite. L’area milanese ha registrato di gran lunga la performance migliore, con una contrazione del valore aggiunto di 2,8 punti. I divari del sistema urbano si ampliano.
L’Italia dei rancori. Nella ripresa persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso. Allora si rimarcano le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con una condizione economica più bassa. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.
Il rimpicciolimento del Paese. La demografia italiana è segnata dalla riduzione della natalità, dall’invecchiamento e dal calo della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, nel 2016 la popolazione è diminuita di 76.106 persone, dopo che nel 2015 si era ridotta di 130.061. Il tasso di natalità si è fermato a 7,8 per 1.000 residenti, segnando un nuovo minimo storico di bambini nati (solo 473.438). La compensazione assicurata dalla maggiore fertilità delle donne straniere si è ridotta. A fronte di un numero medio di 1,26 figli per donna italiana, il dato delle straniere è di 1,97, ma era di 2,43 nel 2010. Nel 1991 i giovani di 0-34 anni (26,7 milioni) rappresentavano il 47,1% della popolazione, nel 2017 sono scesi al 34,3% (20,8 milioni). Pesa anche la spinta verso l’estero: i trasferimenti dei cittadini italiani nel 2016 sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010 (39.545). Il ricambio generazionale non viene assicurato e il Paese invecchia: gli over 64 anni superano i 13,5 milioni (il 22,3% della popolazione). E le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva.
Poveri immigrati. Nel nostro Paese il 14,7% della popolazione di 15-74 anni è in possesso della laurea. L’incidenza tra gli stranieri non comunitari scende all’11,8%. Ma il dato medio europeo degli extracomunitari con istruzione terziaria è pari al 28,5%: 21,4% in Spagna, 26,7% in Francia, 50,6% nel Regno Unito, 58,5% in Irlanda. Gli studenti stranieri iscritti nelle università italiane sono solo il 4,4% del totale, in Germania il 7,7%, in Francia il 9,9%, nel Regno Unito il 18,5%. Nel 2016, su 52.056 nuovi permessi rilasciati nell’Unione europea a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, quelli emessi in Italia sono stati solo 1.288 (appena il 2,5% del totale), nei Paesi Bassi 11.645, in Germania 6.570, in Francia 5.889, in Spagna 3.661, nel Regno Unito 1.602. L’Italia attrae soprattutto giovani migranti scarsamente scolarizzati. Il 90% degli stranieri non comunitari che nel nostro Paese lavorano alle dipendenze fa l’operaio (il 41% tra gli italiani), l’8,9% l’impiegato (il 48% tra gli italiani). Manca una visione strategica che, al di là dell’emergenza e della prima accoglienza, valuti nel medio-lungo periodo il tema della povertà dei livelli di formazione e di competenze del capitale umano che attraiamo.
La polarizzazione dell’occupazione che penalizza operai, artigiani e impiegati. Chi ha vinto in questi anni nella ripresa dell’occupazione si trova in cima e nel fondo della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni.
Un paradossale gioco di specchi tra università e mercato del lavoro. Solo il 26,2% della popolazione italiana di 30-34 anni è in possesso di un titolo di studio di livello terziario: siamo penultimi in Europa, prima solo della Romania (25,6%) e a distanza da Regno Unito (48,2%), Francia (43,6%), Spagna (40,1%) e Germania (33,2%). La scarsa attrattività dell’istruzione terziaria in Italia scaturisce dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro per le qualifiche più elevate e da un’offerta basata nel nostro Paese quasi esclusivamente sui percorsi accademici e poco professionalizzanti. Da un lato la quota di laureati è troppo bassa, dall’altro il mercato del lavoro non riesce ad assorbirne a sufficienza. Nel 2016 solo il 12,5% delle assunzioni previste dalle imprese riguardava laureati. Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione dei laureati 25-34enni è stato pari al 15,3%, non distante da quello relativo all’intera coorte d’età (17,7%). Stipendi bassi (in media la retribuzione mensile netta dei laureati magistrali biennali a cinque anni dalla laurea è di 1.344 euro in Italia, all’estero di 2.202 euro), ampia quota di occupati sovraistruiti rispetto al lavoro che svolgono (il 37,6%), esiguo differenziale retributivo rispetto a chi si ferma al diploma (+14%).
Le tante fragilità del territorio. Un costo umano di oltre 10.000 vittime e danni economici per 290 miliardi di euro (circa 4 miliardi all’anno) è la stima per i fenomeni sismici, franosi e alluvionali degli ultimi settant’anni. Per ridurre il rischio idrogeologico esiste un quadro analitico di interventi (oltre 9.000) individuati dalle Regioni e una stima delle risorse necessarie pari a 26 miliardi di euro, ma l’impegno finanziario dello Stato su questo fronte è attualmente di circa 500 milioni di euro all’anno. L’adeguamento sismico del patrimonio edilizio residenziale costerebbe tra 70 (zone con pericolosità media e alta) e 100 miliardi di euro (comprese le zone con pericolosità bassa).Ci sono poi le perdite della rete idrica nazionale, pari al 39%, che arrivano al 59,3% a Cagliari, al 54,6% a Palermo, al 54,1% a Messina, al 52,3% a Bari, al 51,6% a Catania, al 44,1% a Roma.
Un immaginario collettivo senza forza propulsiva. L’immaginario collettivo è l’insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quindi di definire un’agenda sociale condivisa. Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza propulsiva. Nelle fasce d’età più giovani (gli under 30) i vecchi miti appaiono consumati e stinti, soppiantati dalle nuove icone della contemporaneità. Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà (17,9%), del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%) e dell’automobile nuova come oggetto del desiderio (7,4%). Nella composizione del nuovo immaginario collettivo il cinema è meno influente di un tempo (appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conquistato dai social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%). Non è polvere di immaginario, ma lo spirito dei tempi: il punto da cui ripartire per ritrovare una direzione di marcia comune.
Risentimento e nostalgia nella domanda politica di chi è rimasto indietro. L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica.