I funerali di Emanuele Tufano

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L’atmosfera che si respirava oggi presso la chiesa di Santa Maria alla Sanità era densa di emozioni e ricordi. Un grande striscione campeggiava sul lato sinistro dell’ingresso della chiesa, portando un messaggio potente: “Nessuno muore sulla Terra finché vive nel cuore! #ManuVive”.

Questo motto, evidente messaggio di affetto e nostalgia, rifletteva il desiderio di mantenere vivo il ricordo di Emanuele Tufano, un giovane quindicenne scomparso tragicamente durante un violento scontro a Napoli. All’ingresso della chiesa, numerosi palloncini bianchi, simbolo di pace e purezza, erano stati disposti con cura insieme a uno azzurro, forse un richiamo alla città di Napoli o un richiamo ai colori preferiti dal ragazzo. La chiesa era colma di persone, tutte riunite per porgere l’ultimo saluto a Emanuele.

Il feretro del giovane è arrivato intorno alle 15, accolto con grande mestizia. La camera ardente, allestita in una piccola stanza accanto alla chiesa, è stata un punto di raccoglimento per parenti e amici, sotto lo sguardo vigile delle forze dell’ordine, presenti in gran numero per garantire che tutto procedesse in sicurezza e rispetto.

La cerimonia funebre è stata guidata dall’arcivescovo di Napoli, monsignor Mimmo Battaglia, un incarico solenne in un giorno così doloroso. Molti dei partecipanti indossavano magliette commemorative che ritraevano il volto di Emanuele, accompagnate da un messaggio commovente: “Quel giorno mentre a te venivano donate delle splendide ali, a noi veniva strappato via il cuore per sempre”.

Queste parole rappresentano il profondo dolore e la sensazione di perdita irrecuperabile provata da chi lo conosceva e amava. Di fronte alla bara del giovane, sette cartelloni preparati dai suoi amici aggiungevano ulteriore intensità emotiva alla scena. Poco prima che iniziasse la cerimonia religiosa, gli amici di Emanuele si sono seduti intorno alla bara, formando un cerchio. Questo gesto simboleggiava l’unità e l’affetto che li legavano a Emanuele, un modo per abbracciare simbolicamente chi non potevano più stringere fisicamente. L’intera cerimonia è stata non solo un omaggio alla vita troppo breve di Emanuele, ma anche una potente dichiarazione di come la sua memoria continuerà a vivere, nel cuore e nella mente di chi lo ha conosciuto.

“Un copione, un canovaccio, una routine perversa: l’ennesima giovane vita. L’ennesimo funerale. Gli ennesimi appelli. L’ennesima indifferenza e impotenza. L’ennesima voglia di non parlare, di non dire nulla poiché nulla è rimasto da dire e il tempo delle parole è ormai finito. Perché non ci sono parole che possano lenire il dolore di due genitori, di una famiglia che vede spezzata la vita del proprio figlio”, ha detto mons. Battaglia nella prima parte dell’omelia. “E come comunità, come Chiesa, siamo qui per condividere questo dolore. Siamo qui per portare insieme il peso di una sofferenza che è troppo grande per essere sopportata da soli”.

“Quindici anni. Un’età in cui si sogna, si scopre il mondo, si costruiscono speranze. E invece, oggi ci troviamo di fronte a una morte assurda che lascia dentro di noi un vuoto terribile e uno sconcerto che sembra non passare. Ci chiediamo il perché. Perché tanta violenza? Perché dei ragazzi uccidono? Cosa e dove stiamo sbagliando? Perché molti nostri giovani sembrano essere attratti da appartenenze oscure piuttosto che da possibilità di luce e di bene?”, ha proseguito l’arcivescovo di Napoli nell’omelia. “E noi adulti siamo ancora capaci in questa città di testimoniare queste possibilità, di accogliere e raccogliere il grido disperato e inconsapevole di tanti suoi figli? Queste domande ci abitano il cuore, e spesso restano senza risposte”.

Possibile che Napoli continui a partorire molti dei suoi figli per poi sacrificarli sull’altare di un’inutile e insensata violenza? Sono queste le nostre preghiere oggi, queste le nostre domande, domande che pesano come macigni, che annebbiano la vista dell’anima, imprigionandoci nel buio della morte e della disperazione”, un altro passaggio dell’omelia. “Noi dimentichiamo con troppa facilità. Dimentichiamo il sangue che scorre, dimentichiamo il terrore negli occhi, dimentichiamo le urla delle madri, dimentichiamo i figli di questa città abbandonati a sé stessi e consegnati alle celle di un carcere o al cimitero. Noi si, noi dimentichiamo. E tiriamo a campare. Distraendoci e stordendoci. Raccontando di una città che esiste solo in parte, rifugiandoci nei numeri del turismo, nei protocolli avviati, distogliendo lo sguardo da questa follia di un mondo adulto che non vede più i suoi figli più giovani e più fragili“.

“Un ultimo messaggio lo rivolgo a quei ragazzi che credono di risolvere tutto con la violenza: vi prego, deponete le armi, abbandonate la logica del sopruso e della prepotenza e lasciatevi raggiungere, educare ed accompagnare da chi crede ancora in voi, da chi vede nel vostro cuore un punto sacro e accessibile al bene. Perché è in gioco la vostra vita e cambiare è possibile”, le parole di monsignor Battaglia.

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