Petra Feriancova è un’artista che riesce ad elaborare gli aspetti autobiografici in modo autentico, fondendoli con altre informazioni che provengono dagli ambiti più disparati, traducendo il tutto in cataloghi, intimi ed universali al contempo, che hanno l’afflato delle narrazioni epiche. In questa occasione racconta di miti e di misteri che, nella loro indicibilità, apparentano il tempo dell’uomo contemporaneo all’uomo arcaico.
La mostra PETRA FERIANCOVA. Things that Happen, and Things that are Done. On Beginnings and Matter sarà visitabile fino al 20 gennaio 2015 ed è inserita in Progetto XXI, promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee in collaborazione con la Fondazione Morra Greco.
Nella manifestazione del sacro un oggetto, come una pietra o un albero, si trasforma in qualcos’altro, pur rimanendo sé stesso e continuando ad essere partecipe dell’ordine cosmico. Una ierofania, per dirla con le parole di Mircea Eliade, determina la saturazione dell’essere nella sua pienezza, si compie in qualsiasi azione del fare quotidiano, compresi i bisogni fisiologici, inscrivendo l’uomo all’interno di una logica fondativa che è in grado di risignificare il mondo nella sua totalità fenomenologica. Petra Feriancova è un’artista che riesce ad elaborare gli aspetti autobiografici in modo autentico, fondendoli con altre informazioni che provengono dagli ambiti più disparati, traducendo il tutto in cataloghi, intimi ed universali al contempo, che hanno l’afflato delle narrazioni epiche, quantunque siano frammenti, fragili partiture o situazioni che potremmo definire infra-ordinarie. In questa occasione racconta di miti e di misteri che, nella loro indicibilità, apparentano il tempo dell’uomo contemporaneo all’uomo arcaico. Un’opera che si potrebbe definire civilizzatrice attraverso il rapporto con la materia, con gli elementi naturali e per mezzo dell’atto creativo, del lavoro manuale come atto fondativo. Il suo approccio fa parte del campo metodologico della storia e permette di racchiudere tutti i fenomeni attorno ad un unico centro, ad una visione del mondo, una forma d’assieme, includendo lo spazio della dispersione attraverso concatenazioni di segni. Il percorso della mostra si basa su due aspetti fondamentali: il sacro e il profano, appunto, e la creazione come rinascita dopo una catastrofe. Fin dalla soglia, che delimita gli spazi e che mette in comunicazione i due mondi, le pietre, calchi di argilla, sono simulacri che parlano della creazione dopo il nulla, forme che alludono al tempo mitologico della creazione di Pirra e Deucalione. L’artista crea così uno spazio, metaforicamente un temenos, un recinto sacro, come luogo dell’autopoieutica, ovvero di un sistema in cui ogni elemento collabora nell’autorappresentarsi, in un processo di trasformazione continua che include aspetti autobiografici, politici, culturali, biologici, mitologici, geografici, oltre a qualsiasi altro elemento contingenziale. Così pure il cono inscritto nel cerchio, un orizzonte in senso etimologico, che include all’interno di un limite.
Questa forma riprende il verticalismo per alcuni versi della struttura di Tatlin, della torre costruttivista che, inclinata secondo l’asse di curvatura terrestre, proponeva un sistema semantico e ideologico alternativo a quello modernista e soprattutto la ri-costruzione della società. Vengono inoltre portate all’attenzione di tutti alcuni testi risalenti al periodo compreso tra il VI° e il IV° secolo A.C che, coerentemente con la logica del sostegno all’impianto della mostra, ne evidenziano alcuni aspetti fondamentali. Cosmogonie, miti dell’europa occidentale, tratti da Senofane, Anassimene, Talete, Archelao, Anassimandro, Pitagora analizzano i singoli elementi come l’aria, la terra, l’acqua, ma rappresentano anche delle riflessioni sull’ambiguità del concetto di limite.
Procedendo nella mostra viene approfondita la questione dell’anima come aria, in senso etimologico quindi, e questo concetto viene veicolato attraverso un correlativo oggettivo, ovvero sottoforma di camere d’aria fatte con pelli di animali ed in cui i fori delle pallottole rappresentano le porte di collegamento in cui l’anima circola tenendo insieme il corpo del mondo. L’aria, come alito animatore, come respiro, come principio anch’esso fondativo dell’immagine stessa, riflessa nella pupilla, nel nome o nell’ombra. Anima intesa quindi come vita pura e semplice, ma anche come consapevolezza razionale. Il percorso poi si articola in uno spazio costruito da un muro di 173 cm di altezza, un paesaggio di stalattiti e stalagmiti costituito da zanne incise di elefanti, calchi in gesso della collezione dell’artista e viaggiatore Vojtech Loffler. Alla legge verticale delle zanne si oppongono elementi orizzontali letteralmente cuciti al muro che costituisce il perimetro interno della stanza. Si giunge così ad un terzo spazio, quello della trasformazione del tempo attraverso la materia, l’argilla, che crea un paesaggio corruttibile, una mutazione in senso alchemico. Ma il tempo sacro non appartiene più allo spazio, omogeneo e continuo. In questo punto incontra la normale durata temporale della vita, un tempo primordiale che diventa presente. Petra Feriancova riscrive così la Storia attraverso la discontinuità, le trasformazioni, i limiti, le unità, descrivendo una sorta di curva evolutiva, progettando teologie, metafore, per provare a concepire l’altro all’interno del nostro tempo, del nostro pensiero. Rifonda la coscienza attraverso la Storia non come forma, ma come divenire, contrapponendo all’immobilità l’apertura e la libertà.
Nella quarta stanza vengono disposti alcuni “mobili”, sedie e altre strutture dimensionate in base alle caratteristiche del corpo dell’artista, che così si porta al centro dello spazio della rappresentazione, definendone un ordine, un’organizzazione. Una pelle di serpente, segno di una trasformazione, di una mutazione, ci riporta alla definizione del simulacro che proprio Lucrezio da’ nel De Rerum Natura come emanazione tale da conservare la disposizione e l’ordine del corpo solido da cui proviene. L’opera Play, invece, mette in scena l’ambiguità tra verità e finzione e la riconducibilità del teatro shakespeariano alla tragedia greca. Ma il tratto fondamentale di questo lavoro risiede nel processo realizzativo legato alla determinazione da parte dell’artista nel limitarsi nell’impiego di strumenti, come realizzare il lavoro in uno spazio ristretto avendo a disposizione solamente una stampante e un computer. Un altro lavoro è presente e racchiude il senso di tutto il corpus delle opere in mostra: un film girato in Normal 8mm, supporto destinato per sua natura a corrompersi ad ogni proiezione, destinato ad usurarsi e a perdere definizione e nitidezza. La proiezione di immagini familiari che forse appartengono a tutti, anche nella possibilità di poterle ricordare dopo il compimento del loro destino. (testo di Massimiliano Scuderi)
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