Il Palazzo delle Poste di Napoli, uno degli edifici più iconici della città, annoverato tra i capolavori dell’architettura del Novecento sia sotto il profilo estetico che negli arredi, nel design e sotto il profilo tecnologico, compie in questi giorni 86 anni.
Il progetto prese vita all’interno del piano di risanamento del quartiere Carità, progettato alla fine dell’Ottocento e attuato negli anni Trenta, dopo una serie di sventramenti e demolizioni delle vecchie case cadenti. L’edificio, che fu inaugurato nel 1936, si colloca all’interno di un “Centro delle Istituzioni” previsto dal piano di bonifica: Palazzi della Questura, della Provincia, della Finanza, dei Mutilati e, appunto, delle Regie Poste.
Per la sua realizzazione nel 1928 venne bandito un concorso che portò a selezionare cinque progetti. Un secondo concorso nel 1930 vide vincitore il progetto di Giuseppe Vaccaro, al cui fianco lavorò poi l’architetto Gino Franzi. È proprio nella fase esecutiva che il progetto prese vita, liberando la facciata dell’edificio da ogni fronzolo o orpello. La sua monumentalità è così affidata alla purezza delle linee e alle armonie volumetriche ottenute per “occultamento”.
L’edificio nel suo insieme, al quale il professor Valerio Morone, docente di Architettura e Design all’Università Federico II di Napoli, ha dedicato il libro “La fabbrica dell’innovazione” (realizzato con la collaborazione dell’Archivio Storico di Poste Italiane) appare un gigantesco oggetto di design industriale. Tutto l’arredo è disegnato ad hoc: dai calamai agli orologi, alle insegne, i divisori di vetrocemento, i tavoli in marmo rosso, con una maniacale aspirazione alla perfezione.
Già all’epoca della sua costruzione, il palazzo delle Poste centrali di Napoli, che sarebbe sopravvissuto prima ai bombardamenti delle forze alleate e poi ad un attentato dinamitardo tedesco pochi giorni dopo le Quattro giornate, spiccava per l’elevato contenuto tecnologico delle soluzioni adottate da Vaccaro e Franzi: dai materiali utilizzati (accanto a marmo e granito, vetrolux, cemento armato e linoleum) agli impianti e agli apparati, fino ai servizi postali all’avanguardia, come la posta pneumatica e i telegrafi. Anche la soluzione adottata per contenere il calore interno è innovativa, con una doppia parete nella cui intercapedine passano gli impianti.
Dalla storia alla modernità: il palazzo che domina piazza Matteotti, la cui facciata è stata di recente ristrutturata, è stato interessato da lavori di efficientamento energetico in linea con l’attenzione alla sostenibilità ambientale voluta dall’ad di Poste Italiane, Matteo Del Fante: illuminazione completamente a led, riduttori di pressione per ridurre i consumi di acqua, installazione di misuratori elettrici, sostituzione della centrale termica alimentata a gas e di gruppi frigo di vecchia generazione.
Un’opera monumentale in cui la storia delle Poste interseca quella della città. Al piano terra si staglia imponente la statua di Arturo Martini “La vittoria”, dedicata ai postelegrafonici caduti durante la Grande Guerra, che guarda dall’alto l’atrio, e la grande sala dei telegrafi a nastri scorrevoli intitolata a Matilde Serao. La fondatrice del quotidiano “Il Mattino” fu una delle prime donne impiegate alle Poste, dove lavorò come ausiliaria telegrafista dal 1874 al 1877. C’è anche il suo nome sulla lapide che nell’atrio ricorda alcuni celebri dipendenti delle Poste, tra i quali spicca il nome dell’impiegato delle Poste Giovanni Ermete Gaeta, in arte E. A. Mario, autore della patriottica Canzone del Piave e di altre innumerevoli canzoni italiane e napoletane di successo.
Il primo piano, invece, ospita l‘Emeroteca Tucci, scrigno di tesori di carta che raccoglie oltre 10mila tra quotidiani, riviste, annuari e almanacchi italiani e stranieri pubblicati sin dal 1648, con molte rarità e 200 pezzi unici al mondo.
“LA VITTORIA” DI ARTURO MARTINI
Le opere d’arte presenti nei Palazzi delle Poste nascono, quantomeno concettualmente, insieme al Palazzo che le deve accogliere. Per il Palazzo delle Poste di Napoli il tema affrontato dallo scultore Arturo Martini è la vittoria italiana della prima guerra mondiale.
La statua è espressione di quell’arte monumentale d’avanguardia che privilegia allegorie nazionaliste, ricorrendo alla classica figura femminile, con l’Italia rappresentata spesso come una donna dalle forme marcatamente tondeggianti.
In questo caso Vittorio Martini rappresenta l’Italia come una donna a seno nudo che, con le braccia alzate, sembra voler avanzare sventolando il tricolore in segno di gioia per la vittoria nella prima guerra mondiale. Al momento dell’inaugurazione quel seno nudo scandalizzò il Vescovo, invitato per la benedizione di rito. Vi si pose rimedio occultandolo sotto una bandiera italiana.
“La Vittoria” con la sua mole di 500 quintali di bronzo fuso, i suoi cinque metri di altezza, è poggiata su una base marmorea di due metri, in granito venato di nero, su cui sono incisi i nomi dei postelegrafonici caduti durante la prima Guerra Mondiale. Protesa in avanti verso chi entra, collocata di fronte all’enorme porta che dà accesso al palazzo, sovrasta chiunque entri nell’edificio.
L’opera è del 1936, quando Vittorio Martini, nato a Treviso nel 1889, è già un artista affermato. Ha imparato a maneggiare la materia andando a bottega presso studi di scultori, lavorando in fabbriche di ceramiche, frequentando la Scuola di ceramica a Faenza.
La sua formazione tecnica e artistica si sviluppa poi in Germania, a Monaco nel 1909, e a Parigi nel 1911 dove frequenta i gruppi dell’avanguardia. Proprio a Parigi espone nel 1912 al Salon d’Automne insieme a Boccioni, De Chirico e Modigliani. È del 1920 a Milano la sua prima personale che, presentata dal pittore Carlo Carrà, lo accrediterà̀ sulla scena artistica.
Scomparso a Milano nel 1947, ha lasciato una produzione artistica molto vasta, caratterizzata, da unagrande felicità d’invenzione e da una padronanza assoluta dei processi tecnici per la lavorazione concreta della pietra, del bronzo, della ceramica
Giuseppe Vaccaro, profilo
Giuseppe Vaccaro nasce a Bologna nel 1896 da Francesco e Carolina Puppini.
Terminati gli studi classici, nel 1916 si diploma con il massimo dei voti come professore di disegno architettonico presso il Regio Istituto delle Belle Arti di Bologna.
Integra gli studi presso la Regia Scuola d’applicazione per Ingegneri, laureandosi nel 1920 a Bologna all’età di 24 anni in architettura con il massimo dei voti. Già nel 1922 vince il primo premio nel concorso nazionale per la sistemazione della piazza della Balduina a Roma.
Prima assistente (1920/21) di Attilio Muggia, titolare della cattedra di Architettura Tecnica, diventa in seguito titolare della cattedra nella stessa materia (1934) presso la Regia Università di Roma.
La sua carriera professionale si svolge sostanzialmente fuori dalle aule universitarie ed è fortemente caratterizzata da una precoce notorietà.
“L’architettura può esprimere i caratteri più essenziali e profondi della cultura attuale e formularli in sintesi d’arte? Se no, il suo interesse decade. Se sì, questo è il suo massimo compito. Alla luce di queste finalità se ne devono ricercare i massimi valori”.
Con queste parole dello stesso Vaccari possiamo sintetizzare l’anima della sua opera caratterizzata da un’interpretazione in chiave futuristica, con compromissioni con il linguaggio del razionalismo.
Così il suo maestro Marcello Piacentini ne traccia un profilo:
“(…) Oggi egli è, a 36 anni, architetto maturo, architetto nel significato più completo. Egli sente l’organismo come pochi altri: è un buon disegnatore ma non se ne compiace; non si indugia in effetti decorativi e piacevoli; non ricerca il particolare puramente gustoso: è insomma un vero costruttore. I suoi edifici, realizzati e in progetto, sono logici, chiari, euritmici. (…) provvisto di una cultura umanistica, artistica e tecnica, di temperamento ricco ed equilibrato (…)”
Impegnato spesso in commissioni ufficiali, partecipò al monumentalismo dell’epoca cercandone talvolta la correttezza esecutiva e l’uso dei termini razionalistici entro un’architettura d’impianto simmetrico, più evidenti in opere come la Scuola d’Ingegneria di Bologna (1934) o la colonia AGIP di Cesenatico (1937), che ebbero notevole influenza sull’architettura italiana.
Tra le sue opere del dopoguerra: Recoaro Terme, chiesa di S. Antonio Abate (1949-53); Bologna, chiese del Cuore Immacolato di Maria (1955-65) e di S. Giovanni Bosco (1963-68) e Istituto Commerciale Zanotti (1956-63); Roma, quartiere di Casal Palocco (dal 1958, con A. Libera, U. Luccichenti e altri), chiesa di S. Gregorio Barbarigo (1969-70).
Muore a Roma l’11 settembre 1970.