Era già da un po’ che il grande artista Carlo Giuffré non cavalcava le scene, quando seppi, per caso, che era tornato nella sua Napoli proprio per recitare, forse un’ultima volta. Si era, infatti, trasferito a Roma per studiare all’Accademia Nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico dove, tra i compagni di studio, aveva trovato amici che sarebbero poi diventati grandi interpreti del panorama nazionale: Mastroianni, Manfredi, Gassman, Panelli, Sordi e Bice Valori.
Desideroso di ritrarlo, telefonai subito al caro Tonino Cuomo, bravissimo regista e attore, che lo conosceva personalmente e gli spiegai che avrei voluto incontrarlo. Fu così che, il giorno dopo, mi aveva fissato un appuntamento con lui nell’albergo dove alloggiava.
Ero emozionato all’idea di imbattermi in Carlo, perché era un’icona del teatro italiano e napoletano, avendo lavorato, da solo o in coppia con il fratello Aldo, con i più grandi registi della storia del cinema e del teatro italiano: Eduardo, Strehler, Visconti, Rossellini, Germi, Risi, Monicelli, Salce, fino a Benigni. La notorietà, però, come accade spesso, gli arrivò con la televisione e con il cinema. In quanti celeberrimi film lo avevo apprezzato quale straordinario interprete e con quanti famosissimi colleghi aveva duettato! Perfetto in ogni ruolo, dalle iniziali interpretazioni di giovani prestanti e fascinosi per affermarsi poi come attore dalla vocazione comica e grottesca e divenire, infine, anche un ottimo regista. Uno stile personalissimo, il suo, singolare fusione di ironia e pathos.
Nel corso della sua carriera ha collezionato successi e prestigiosi riconoscimenti, tra cui, nel 1984, un Premio David di Donatello e una candidatura nomination Nastri d’Argento come migliore attore non protagonista per ‘Son contento’. Insomma, stavo per trovarmi al cospetto di un vero mito, adorato dalle donne e con una grande passione per la sua professione e per la vita in genere.
Mi presentai puntuale alle 10 e ci sedemmo ad un tavolo per fare colazione e, tra un caffè e cornetto, cominciò a raccontarmi dell’incontro, appena ventenne, che gli avrebbe cambiato la vita, con l’immenso De Filippo: “Eduardo mi fece fare una prova nel pomeriggio e la sera mi mandò in scena. Ero magrissimo, dovevo dire solo una piccola battuta, ma gesticolavo di continuo per la tensione e la trepidazione. Ed ecco che mi disse: “Levate chelle ppalette ‘a miez’”, incitandomi a calmarmi e a prestar attenzione alle mani. Così ho imparato immediatamente a contenerle in scena.
Lui arrivava subito al dunque. C’era chi si spaventava e se ne andava, invece, a me è servito molto quel modo anche brusco di insegnare”. Restammo a chiacchierare per circa un’ora e poi ci spostammo in un salottino dell’albergo dove avevo individuato due fonti di luce che creavano dei fasci luminosi simili a due riflettori di scena. Posizionai la sedia avanti per farlo accomodare e fargli assumere diverse posizioni.
Dopo qualche scatto, capii di avere il ritratto giusto. Mi ringraziò e mi invitò ad andare al teatro, dove avrebbe recitato il giorno dopo. Accettai, ma, a causa di altri impegni, dovetti rinunciare. Purtroppo, poco dopo, seppi che si era spento serenamente e, ancora oggi, ho il rimpianto di non averlo visto recitare dal vivo. Che tu sia un Artista straordinario non mi stancherò mai di ripeterlo.