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Quando ho iniziato a cimentarmi con la fotografia, Fabio Donato era già uno dei fotografi più noti di Napoli, capace di intuire, con estrema lungimiranza, quei cambiamenti in ambito artistico e teatrale che si sarebbero puntualmente verificati e che, dagli anni Sessanta, hanno modificato l’angolo di osservazione di chiunque si accosti alla Bellezza con sacro rispetto e venerazione.
Lo incontravo a tutte le mostre e in ogni evento culturale, era sempre presente e attivo, documentando la storia culturale della nostra città. Aveva una folta chioma alla Jimi Hendrix e sempre al collo la sua fedele macchina fotografica.
Fabio è un fotografo poliedrico, perché il suo lavoro spazia dal reportage al ritratto e alla ricerca concettuale; sicuramente è tra quelli che hanno influenzato maggiormente le nuove generazioni di fotografi partenopei. Riservato e riflessivo è molto misurato e un uomo di poche parole.
La sua maestria a penetrare il pensiero altrui, le intenzioni stesse dei protagonisti dei suoi scatti, il tentativo di trasformare i linguaggi e, con essi, mostrare la complessità del sociale, presuppone una naturale propensione all’interpretazione dei pezzi di realtà sui quali decide di soffermarsi che rende poi, in modo sublime, tramite la sua coinvolgente abilità nella comunicazione visiva, che diviene, appunto, racconto.
Ricordo che anni fa mentre sfogliavo una rivista, rimasi colpito da un ritratto di Eduardo De Filippo che aveva uno sfondo nero ed era seduto di profilo appoggiando il suo mento sulle mani sovrapposte sorrette da un bastone; era straordinario e pensai che fosse la più bella immagine del grande Artista che avessi mai visto, che, ovviamente, era stata realizzata proprio da Fabio.
Un giorno lo incontrai e, dopo aver elogiato quello splendido capolavoro, si offrì di regalarmi quella foto; ancora non sono andato da lui a prenderla, ma di certo non me ne dimenticherò e gli telefonerò presto.
Quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto fotografarlo, Fabio ne fu entusiasta e prendemmo subito un appuntamento all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove lui insegna fotografia ormai da diversi anni.
Quel giorno andai un po’ prima all’incontro e girai in lungo e largo tutto l’edificio, cercando un’inquadratura o qualche scorcio che suscitasse particolarmente il mio interesse per lo sfondo del ritratto che avrei dovuto fare.
Proprio nel chiostro, da una porticina laterale aperta, notai, all’interno, una grande quantità di statue in gesso di varia grandezza; il mio interesse fu subito catturato e, all’istante, capii che avevo trovato l’ambientazione adatta.
Dopo poco incontrai Fabio e lo portai in quella stanza, facemmo qualche prova di inquadratura e, alla fine, scelsi una grande testa bianca; posizionai anche una luce riflessa su di un pannello, per avere una luce più diffusa, perché l’ambiente era buio. Furono diversi gli scatti, tutti buoni e soddisfacenti.
Sia il posto che il personaggio erano molto interessanti, per cui risultò facile per me lavorare in tale situazione.
Quando tornai a casa, infatti, controllando al computer i file, ero indeciso su quale immagine scegliere anche se poi optai per quella che mi aveva colpito per prima.
Devo ammettere che, solitamente, è sempre il primo scatto quello che poi risulta essere il più efficace e, anche in quell’occasione, fu confermata questa vecchia consuetudine.